Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
C’era una volta un network composto da tante piccole imprese specializzate nella informatica, nella consulenza, nei controlli d’impresa, nella finanza e nei pagamenti, con una capogruppo di proprietà di piccole, ma solide banche locali. Il suo business era l’offerta congiunta di servizi a valore a intermediari finanziari.
All’indomani degli sconvolgimenti che avevano colpito il sistema bancario italiano, dopo la grande crisi, il network non solo era sopravvissuto, ma si era consolidato e distinto. L’immagine e i risultati erano visibili. Godeva di reputazione, aveva un modello di business originale, era corteggiato dai competitors.
Intesseva alleanze anche con primari operatori, formulando strategie con prudenza, ma anche con spirito innovatore. Una piccola eccellenza italiana, in un mondo che si apriva a profondi cambiamenti. Era, per chi si faceva vanto di appartenervi, un’avventura imprenditoriale stimolante.
Certamente il mercato non era facile, bisognava avanzare con cautela, seguendo una linea chiara. Ma gli spazi non mancavano. Fantasia, lungimiranza, determinazione erano gli ingredienti della formula di successo, con la preoccupazione costante di rafforzare la qualità del personale chiamato a nuove sfide. Tutto appariva possibile.
Arrivare fino a quel punto non era stata questione di giorni. C’era voluto un quarto di secolo, tra alti e bassi. Tra momenti di euforia e di delusione. Nato da un’idea portata avanti con coraggio dal fondatore, prematuramente scomparso, il gruppo era stato rafforzato da chi gli era succeduto, in quanto chiamato ad assicurarne continuità e crescita. E anche ad uscire da un certo provinciale isolamento, come capita a tante realtà locali, costruendo nuove relazioni. Tutto era riuscito per il meglio, con nuove attività e nuove aperture sul mercato dei servizi offerti. Risultati, riconoscimenti, prospettive.
Invece tutto si è consumato, quel network oggi non esiste più. In pochi anni si è dissolto tra fallimenti di alcune sue parti, vendita di altre componenti senza la percezione delle loro potenzialità, fine dello spirito unitario delle aziende proprietarie, disperso con poca fortuna per tutte. Se prima esse avevano nel network un elemento identitario che le faceva riconoscere dal mercato e dalle istituzioni, oggi nessuno ricorda più quella costruzione.
L’ultima componente del gruppo, una piccola società di servizi professionali per l’impresa, è stata ceduta in questi giorni.
Quale è la lezione da ricavare da questo fallimento a prima vista incomprensibile? Ma che è, in fin dei conti, una eventualità sempre in agguato se una cultura d’impresa, invece che affidarsi a canoni di razionalità, comincia a far prevalere personalismi e bassi sentimenti.
Nel caso in specie, invece che in errori strategici, rischi non controllati del business, cambiamenti del mercato, le spiegazioni non possono che ricercarsi in guerre intestine, invidie personali, egotismi, approssimazioni, irrazionalità, scarsa lungimiranza, permanenza ad ogni costo nelle posizioni di vertice. Doppiezze, ambiguità, sfiducia, protagonismi.
Colui che aveva assicurato lo sviluppo del network era stato cacciato anni prima, senza un motivo che non fosse quello di reconditi sentimenti di avversione. Non di risultati. Da quel momento era iniziata la discesa. Insomma un deficit di governance, in una deriva sempre più marcata e irreversibile.
Qualche sopravvissuto che ancora si ostina a stabilire record di permanenza in incarichi in qualche brandello di quel mondo dovrà presto predisporsi anche egli all’uscita. Tra i ricordi che in quel momento affolleranno la sua mente ci potrà essere anche la domanda sulle cause dell’annientamento di un modello di successo e su quanto egli vi abbia improvvidamente contribuito.
Non sappiamo se, per la sua autoassolutoria consolazione, siffatti dubbi lo turberanno più di tanto. L’autoreferenzialità da non mettere mai in discussione è sempre il migliore antidoto per non riconoscere i propri errori.
Per chi scrive, invece questa è soltanto una piccola favola di come anche le imprese migliori possano scomparire. Non tutto sta scritto nei libri di management. E non ci sono solo le storie delle imprese di successo dalle quali imparare. Quelle meno comprensibili sono le più istruttive. Meditate gente, meditate.
Intuendo riferimenti a fatti realmente accaduti, azzarderei questo commento.
In un progressivo disuso di onestà intellettuale si afferma non tanto il riconoscimento delle capacità del merito altrui ma un’invidia insopportabile per il talento d’altri a noi sconosciuto.
È un’intolleranza generalizzata che si replica ormai a tutti i livelli, dalle amministrazioni di condominio, alle presidenze di circoli, alle dirigenze pubbliche e nel management privato.
Del resto signori si nasce e, in un mondo dove oggi spadroneggiano “dottorifici” (che distribuiscono titoli virtualmente qualificanti di ogni genere) tutti credono di avere i presupposti per ricoprire ogni compito.
Pertanto, non soltanto non c’è da meravigliarsi della confusione dominante, ma neanche del fatto che soggetti invidiosi e intellettualmente miopi, prendendo il sopravvento soffochino sviluppi evidenti. Dopo di noi il diluvio sembra prevalere nella loro mente. Il famoso detto siciliano recita pure “a squagghiata ra nivi si virinu i pirtusa” (quando si scioglie la neve si vedono le buche).