Ho visitato una sola volta Israele, approfittando di un periodo politico non turbolento.
Un giorno il mio amico G, molto lontano dal Signor G di Gaber perché pragmatico e sostanzialmente cinico, mi propose un viaggio insieme in quella terra tanto decantata e storicamente importante per la nostra cultura occidentale.
Tra noi c’era un certo affiatamento e la sua padronanza delle lingue, specie l’inglese, era per me sicuramente un vantaggio.
Ci volle poco per decidere e, in quattro e quattr’otto, convenimmo d’andarci. Stabilimmo il percorso rivolgendoci a una sperimentata agenzia che si mise subito all’opera.
Per come ci stavamo organizzando affrontavamo l’avventura quasi come turisti fai da te, senza cioè l’ausilio di una guida che ci accompagnasse, ma con itinerario e ogni aspetto logistico perfettamente programmato.
La stessa agenzia, ovviamente, ebbe ad attivarsi per l’ottenimento dei visti e ogni cosa venne predisposta per la data della partenza. Tutto fatto quindi. Prenotati voli, alberghi e trasferimenti interni. E vaiiii!
Preparato in ogni minimo dettaglio per corrispondenza, stante le residenze di entrambi in regioni diverse.
Il giorno della partenza ci ritrovammo per tempo all’aeroporto di Fiumicino con carte d’imbarco alla mano e bagagli al seguito. Le istruzioni prevedevano una presentazione al gate d’imbarco in tempi abbastanza anticipati.
Arrivati sul luogo entrambi fummo chiamati separatamente per colloqui preventivi alternati che, a quanto pare, costituivano usuali rituali di sicurezza.
Sarà stato per le sembianze del mio amico, somaticamente vicine ad un arabo, ma i colloqui cominciavano ad andare per le lunghe e dopo poco si trasformarono in due veri e propri interrogatori incrociati.
“Come mai avete scelto per questo viaggio in così breve tempo?”
“Perché avete deciso di visitare Israele?”
“Come mai non avete scelto come fanno tanti uno dei pacchetti di viaggio programmati da agenzie turistiche?”
“Che grado di conoscenza c’è col suo amico? Da quanto tempo vi conoscete? Che lavoro svolge?”
“Come si chiamano i genitori del suo amico? Che età anno? E loro che professione fanno?”
“Dove è ubicato il luogo di lavoro del suo amico? Quale è il suo domicilio?”
In relazione a quanto acquisito ci facevano ruotare ogni cinque minuti per verificare il reciproco grado di conoscenza e sondare l’attendibilità delle risposte.
Fino ad allora non mi era mai capitato un preambolo simile nel preludio di un viaggio.
Le domande continuavano con sempre maggiore insistenza e esagerata invadenza, tanto da travalicare ogni logica e cominciare ad assumere aspetti irritanti.
Per cercare di chiudere cominciai a mostrarmi intollerante e a contrappormi in modo scortese. Al punto tale da sbottare e dire loro che questo modo di fare era inconcepibile, che avevano ormai superato ogni limite e che, anzi, avevano proprio rotto e che se avessero continuato con questi toni avrei tranquillamente rinunciato all’imbarco e messo una croce definitiva su un’eventuale visita futura del loro paese.
L’indisponibilità esternata e l’evidente incazzatura procurarono il loro effetto. Fummo rilasciati con un visto sui bagagli e ci mettemmo in attesa per le procedure d’imbarco.
Una volta in aereo scoprimmo con sorpresa che i conduttori degli interrogatori erano anche membri dell’equipaggio che, evidentemente, tra i loro compiti avevano anche quel ruolo di filtro poliziesco. Una volta decollati arrivammo secondo l’orario stabilito a Tel Aviv. Spostandoci poi a Gerusalemme e successivamente in Galilea con un pacchetto turistico locale.
Il Mar Morto è un’esperienza unica, il Giordano vive del mito, Betlemme rievoca le storie primigenie del Cristianesimo. Tutti i luoghi risultavano interessanti, anche le Alture del Golan che sovrastano la Siria. La chiusura del viaggio prevedeva un soggiorno marino ad Eilat, sul Mar Rosso.
Tutto il percorso per terra ferma si svolse senza intoppi, unica costante furono i ripetuti terzi gradi ogni qualvolta dovevamo procedere con i voli interni.
Girare per Gerusalemme è anch’essa un’esperienza unica che non si può descrivere. Si deve solo vivere in prima persona.
Un giorno prendemmo pure il loro bus di linea per visitare la parte residenziale esterna degli ebrei ortodossi. Fu l’unica volta che rischiai fotograficamente di brutto, solo per avere inquadrato con la mia reflex un gruppetto locale, ma senza scattare la fotografia. Divertente era stato anche fotografare i passeggeri che accedevano al bus per recarsi sul posto, ma dopo un giro del percorso l’autista, che da subito si era mostrato infastidito della nostra presenza e non approvando il fatto che scattassimo foto all’interno del veicolo, ci espulse in malo modo, lasciandoci letteralmente in mezzo a una strada, fuori dalle mura. Tutto questo comunque rientra negli imprevisti e delle causalità che si creano nel corso di qualunque viaggio.
Costante meta, a Gerusalemme, è recarsi al Muro del pianto o andare a posizionarsi sulla panoramica che domina la Spianata delle moschee. Gli ebrei di quei luoghi che incontravamo si dimostravano cortesi e sempre disponibili. Certo facevano impressione tutti quei militari e i continui presidi che vigilavano l’accesso alla città vecchia.
Oggi Israele sta vivendo un momento terribile e posso anche comprendere il terrore che questo popolo nutre: il sentirsi perennemente in pericolo. Di certo nel modo di rapportarsi con gli altri, specie se arabi o palestinesi, manifestano tutta la loro insicurezza. La parte ebraica laica diviene sempre più minoritaria nel paese, messa in minoranza dalla intransigenza ortodossa e dei coloni che, espandendosi arbitrariamente nei territori della Cisgiordania, complicano ogni possibilità di dialogo con gli altri coabitanti della frazionata terra promessa.
Il nazionalismo autoritario li pone da tempo e sempre più nella parte del torto, ma tutti gli israeliani non hanno certamente le stesse idee e, come si usa dire, di loro non si può fare di tutta l’erba un fascio.
Cultura e tradizioni ebraiche sono punti di riferimento della nostra civiltà. La non soluzione del conflitto tra Israele e Palestina non può continuare a lungo, oggi occorre di certo una mediazione neutrale e medicamentale esterna con un tutoraggio adeguato, volto ad avviare un processo di pacificazione e il ritorno a una accettabile convivenza.
Israele vive una sindrome di incertezza costante dalla sua fondazione come stato e vede nel prossimo un potenziale terrorista (i fatti del 7 ottobre non possono essere dimenticati certo, ma non possono essere trascurati i precedenti israeliani e ancor meno si può giustificare il genocidio in atto che supera anche le regole di rappresaglia nazista di via Rasella del 10 a uno: quasi 340 civili rastrellati e fucilati contro la morte di 33 tedeschi per mano dei partigiani). La patologia che li affligge e li terrorizza è la fottuta paura di essere costantemente esposti a un attentato. La domanda è e riguarda tutti i contendenti: ma come si può fare l’abitudine a vivere così? E come è possibile che le civiltà democratiche possano ancora tollerare e rimanere inermi davanti a queste forme di reazione spropositate che configurano e alimentano solamente continue stragi?
Buona luce a tutti!