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Tecnologia ubiqua e analfabetismo tecnologico

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Può l’ignoranza delle tecnologie essere utilizzata per trasformare le persone in schiavi? Si, purtroppo, e Cassandra è qui per spiegarvi come.

Nel 2008, proprio all’inizio di questa rubrica, Cassandra affrontò l’argomento dell’esposizione a computer, smartphone ed Internet delle nuove generazioni.

All’epoca, svolse alcune considerazioni sul diverso tipo di attenzione che un giovanissimo esercitava mentre studiava di fronte ad un computer, notando che veniva privilegiato un “multitasking” tra più attività, le quali dovevano “condividere” l’attenzione, mentre le generazioni precedenti si erano addestrate ad un pensiero strettamente sequenziale e ad un’attenzione concentrata su una singola cosa, richiesto ed indotto dalla lettura, intrinsecamente sequenziale, dei libri.

Conclusione delle elucubrazioni di Cassandra fu che stavamo allevando una generazione di “marziani, persone la cui testa avrebbe funzionato in maniera sostanzialmente diversa da quella delle generazioni precedenti.

Ampliò successivamente questo concetto in una categorizzazione digitale delle persone, coniando anche i termini di “immigrato digitale” ed “emigrato digitale”.

Fattostà che solo di considerazioni sociologiche si trattava. Alla povera Cassandra, purtroppo, era sfuggito un elemento essenziale. Sarebbe bastato aggiungere al ragionamento un fatto storico dell’evoluzione delle tecnologie, fatto che Cassandra pur ben conosceva, tanto da raccontarlo nei suoi corsi sull’Internet delle Cose.

Si tratta di un enunciato, che risale al 1991, quando Mark Weiser pubblicò su “Scientific American” un articolo dal titolo apparentemente molto pretenzioso “Il computer per il ventunesimo Secolo”, che descriveva, pur senza dargli ancora un nome, l’avvento del “Ubiquitous Computing”, il computer che scompare.

Usava parole quasi poetiche per descrivere il concetto. “The most profound technologies are those that disappear. They weave themselves into the fabric of everyday life until they are indistinguishable from it.”

“Le tecnologie più profonde sono quelle che scompaiono. Si insinuano nel tessuto della vita quotidiana fino a rendersi indistinguibili da esso.”

Una frase affascinante, tanto per la sua profondità che per la sua ormai ampiamente dimostrata esattezza.

Una frase da brivido, per le conseguenze che ha avuto, del tutto evidenti per chi le voglia oggi vedere.

I computer di oggi, la maggior parte di essi, sono effettivamente scomparsi. I pochi pc e laptop superstiti, che restano ben visibili, sono solo una piccolissima parte di quelli esistenti. La maggior parte dei “computer” si sono nascosti in giro, negli oggetti che ci circondano, e non solo in quelli considerati come “Internet delle Cose”, ma in oggetti insospettabili. Contare, ad esempio, il numero di CPU che sono contenute in un’automobile moderna è un lavoro improbo, visto che anche un singolo fanalino posteriore può contenerne più di una.

La radice del problema è che un “nativo digitale” che usa gli oggetti non sa nemmeno che sono computer, e se ne ha nozione non gli interessa minimamente, né tantomeno gli interessa comprenderne i dettagli di funzionamento.

Persone convinte di essere “Digitali”, che in realtà sono degli “Analfabeti tecnologici”.

Il “Cosa ci sarà dentro?” pensiero comune nei bambini di molti anni fa, oggi non viene in mente quasi a nessuno. Così, miliardi di persone sfiorano lo schermo dei propri smartphone, trovando del tutto “naturale” che questo sposti “oggetti” rappresentati sullo schermo o che un gesto con le due dita permetta di zoomare una fotografia.

Lo trovano del tutto naturale. Non vedono la tecnologia, ma la usano come una proprietà intrinseca dell’oggetto. Considerano l’oggetto “magico” ed usano le tecnologie che esso contiene come una magia.

Dove è il problema in questo? — dirà qualcuno dei 24 interdetti lettori — Che pericolo rappresenta l’utilizzare un oggetto senza sapere come funziona?”.

Il pericolo consiste nel non comprendere più la realtà, e quindi diventare “schiavo” degli oggetti, e di chi controlla gli oggetti stessi.

Gli oggetti, infatti, vengono identificati solo per la funzione primaria che forniscono. Un televisore, uno smartphone, un’auto sono oggetti non semplici, che eseguono funzioni molto aldilà di quelle che vengono percepite.

Tutti gli oggetti informatizzati e connessi ad internet sono progettati per fare molto di più di quanto evidente. Ad esempio, lo smartphone è un aspirapolvere di dati personali ed uno strumento di tecnocontrollo sociale di massa, eppure viene percepito solo come una specie di coltellino svizzero che fornisce Internet, Social, telefono, torcia, fotocamera, messaggi e telefonate, tutto insieme, tutto sotto lo stretto controllo del suo proprietario.

Oppure un aspirapolvere autonomo, che oltre a pulire il vostro appartamento, ne crea la mappa, inclusi i mobili, e la invia al fabbricante.

“Madornale errore”, direbbe Jack Slater, vedendo utilizzare questi oggetti.

Se il proprietario dell’oggetto è un nativo digitale divenuto analfabeta tecnologico, come la stragrande maggioranza delle persone di oggi, non sta controllando l’oggetto, ma ne è controllato; è in balia di forze e poteri che non può percepire, che non comprende, e dai quali non può difendersi, ma solo subire.

E’ vittima di una sortilegio tecnologico, da cui non c’è pentacolo che possa difendere; una magia in passato considerata desiderabile, ma oggi rivelatasi un sortilegio, una maledizione, un giogo.

Nel Vangelo secondo Giovanni 8–32 viene enunciato “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi

Oggi, ahimè, dobbiamo trasformare questo concetto in “Ignorate la realtà delle tecnologie, e la vostra ignoranza vi renderà schiavi”.


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