Home Imprese&Lavoro Si può insegnare l’inclusione ?

Si può insegnare l’inclusione ?

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Per gentile concessione del magazine RESISTENZEQUOTIDIANE.IT pubblichiamo questa interessante intervista della prof.ssa Della Piana dell’Università degli Studi di Salerno su come agevolare i ragazzi ad entrare nel mondo del lavoro. L’intervista è a cura di Martina Masullo.

Esistono persone che, con il proprio gioioso entusiasmo, riescono a contagiare chiunque gli passi accanto, anche solo per qualche ora. La professoressa Bice Della Piana, docente di Cross Cultural Management e Cross Cultural Competence presso l’Università degli Studi di Salerno, è senz’altro una di queste persone. Dal 2017 guida il 3CLab, il laboratorio di ricerca “Cross Cultural Competence Learning & Education” presso il Dipartimento di Scienze Aziendali – Management & Innovation System (DISA-MIS) che, come lei stessa lo definisce, è “uno spazio di apprendimento inclusivo” ed oggi rappresenta un punto di riferimento per gli studenti di ben cinque dipartimenti e un fondamentale step per entrare nel mondo del lavoro in modo più consapevole. Durante la nostra intervista, ha saputo raccontarsi in modo sincero e profondo, condividendo non solo i suoi progetti e le sue ricerche accademiche, ma soprattutto ambizioni, desideri personali e propositi per il futuro.

Tra i temi più forti delle sue ricerche ci sono la cross cultural competence, la cross cultural intelligence e la cross cultural awareness. Di che cosa si tratta e quali sono le differenze tra questi concetti?

Attraverso i nostri studi abbiamo cercato di creare chiarezza tra i vari concetti. L’ultimo, che è quello della cultural awareness, quindi la consapevolezza dei propri valori rispetto a quelli degli altri, rappresenta il primo mattoncino che le persone dovrebbero posizionare analizzando se stesse in relazione agli altri, per poi diventare nel tempo competenti dal punto di vista culturale. Esistono moltissimi studi che categorizzano i valori partendo da quelli universali, quindi invariati rispetto a una cultura, e arrivando a capire come si caratterizza la priorità data a questi valori a seconda delle culture. Questi studi nella pratica manageriale hanno trovato poco spazio. Quindi il mio primo problema è stato quello di cercare di individuare come la cultural awareness potesse essere diffusa tra gli studenti. Poi, il problema rispetto alla cultural competence è un problema diverso, perché si passa da una consapevolezza a una competenza. Una competenza cross cultural è specifica, ma allo stesso tempo trasversale e racconta di come una persona è abile ad interagire con una persona di cultura diversa dove interagire non significa mero adattamento, ma bilanciarsi tra quella che è la composizione naturale della propria cultura e l’accettazione dell’altro. Si tratta di una competenza che può essere anche misurata. Per quanto riguarda la cultural competence si potrebbe dire che chi è intelligente culturalmente riesce ad acquisire una competenza. Questi concetti non erano per niente diffusi tra gli studenti e noi abbiamo assunto il compito di diffonderli e raccontarli.

Dal 2017 dirige il 3CLab, il laboratorio di ricerca “Cross Cultural Competence Learning & Education” presso il Dipartimento di Scienze Aziendali – Management & Innovation System (DISA-MIS). Quali sono i progetti realizzati fino ad ora e quali quelli in programma per il prossimo futuro?

Dirigere non è proprio una parola che mi appartiene. Il 3CLab è uno spazio di apprendimento inclusivo dove il concetto di spazio è inteso come virtuale ancor prima del covid perché avevamo portato all’interno del 3Clab delle mie connessioni personali che erano al di fuori dell’Università di Salerno. Dopo una mia esperienza presso l’Institute for Culture, Collaboration, and Management (ICCM) del Florida Institute of Technology ho cercato di replicare, almeno in parte, ciò che ho studiato presso il loro istituto di cross cultural management. Da qui anche la volontà di renderlo uno spazio inclusivo rispetto a saperi diversi, infatti siamo sede di tirocinio di cinque dipartimenti (Dispac, Disa-Mis, Dispc, Disps e Dipsum) e spesso i ragazzi lavorano anche insieme. È importante sottolineare che il nostro progetto è inclusivo non tanto rispetto al genere, ma rispetto al dato culturale. Secondo il nostro punto di vista il 3CLab era necessario perché mancava un posto in cui i ragazzi potessero vivere l’esperienza di lavoro e di ricerca prima di laurearsi. Abbiamo avuto feedback positivi perché è un meccanismo che funziona: abbiamo tanti ragazzi che partecipano al di là del tirocinio, ma solo per il piacere di partecipare e questo crea una forte curiosità per le aziende anche molto importanti. Tra i progetti a cui teniamo di più c’è lo Study Tour Italy che abbiamo organizzato con l’AIX Marseille School of Management nel 2019 attorno a due parole chiave: tradizione e innovazione. Abbiamo realizzato visite in azienda e percorsi all’interno del Disa-mis per raccontare una delle specificità del tessuto imprenditoriale italiano, le imprese familiari. Un progetto che ci vede particolarmente impegnati da due anni è il programma “Buddy System UNISA”, un progetto per noi molto sfidante e che riteniamo particolarmente importante perché accomuna, da questo punto di vista, UNISA alle migliori università del mondo (Stanford e Harvard per citarne alcune). La specificità di questo programma risiede nel suo supporto tecnologico. Si tratta di una web app, Syntonia, gratuita e sviluppata con il supporto di un’azienda del territorio, I.T.Svil srl, per creare un match tra studenti (che però si incontrano dal vivo nei luoghi di UNISA) considerando interessi personali, lingue parlate, ma soprattutto il profilo di se stessi fornito dagli studenti e quello ideale dello studente che vorrebbero incontrare. Questo sistema non è stato creato solo per gli studenti che arrivano da altre università (incomings), ma anche e soprattutto per gli studenti UNISA (locals) perché potessero imparare una skill fondamentale della leadership attuale, ovvero la cura dell’altro.

Qual è il suo background culturale e il suo percorso di studi?

Mi sono laureata in Economia e Commercio, in particolare ho sempre mostrato un interesse più specifico per temi in ambito organizzativo che avessero a che fare con lo studio del comportamento delle imprese oltre che degli individui. Ho vinto il dottorato in Economia e Direzione delle Aziende Pubbliche e la tesi di dottorato era sul tema dell’efficienza in ambito pubblico utilizzando l’osservazione partecipante i dipendenti del settore risorse umane della Regione Campania, attraverso uno studio di matrice antropologica e l’osservazione diretta e partecipante, quindi etnografica. Secondo il mio punto di vista l’efficienza non ha soltanto la dimensione economica e quella di tipo produttivo e tecnico, ma esiste un’efficienza cognitiva, sociale, culturale. Quindi i miei studi sono stati, sostanzialmente, sulla multidimensionalità del concetto di efficienza. E poi dopo una borsa di studio in Gestione delle Risorse Umane, una scuola di specializzazione in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, il concorso da ricercatore in Economia e Gestione delle Imprese è arrivato il ruolo da professore associato. Dal 2015 è stato istituito il primo corso di Cross Cultural Management che era in italiano, poi quello di Cross Cultural Competence, oggi entrambi in inglese, e, infine, l’istituzione del 3CLab.

Quali sono i punti d’incontro e le principali divergenze tra le realtà aziendali italiane e quelle estere, soprattutto per quanto riguarda le differenze di genere e in che modo lavorare sulla cultura può aiutare a limare le criticità esistenti?

Ritengo opportuna una premessa. Dai risultati di uno studio (GLOBE) effettuato su 62 paesi, il valore del gender equality è pressoché basso in tutti i paesi analizzati. Su una scala da 1 a 7, il valore medio per ogni cluster culturale (ovvero un insieme di paesi opportunamente selezionati) non supera il 3.84. Personalmente, non amo parlare di questo tipo di disparità, credo solo che, in generale, ci siano delle condizioni culturali che stimolano di più o stimolano di meno la “volontà” e la “possibilità” delle donne di esprimere integralmente se stesse e/o di raggiungere ruoli apicali.

In che modo conoscenza, tradizione e innovazione tecnologica si integrano tra loro sia nell’ambito delle aziende sia in quello della formazione?

Un anno e mezzo fa abbiamo iniziato un percorso di accreditamento per la costituzione di uno spin off universitario perché volevamo cercare di conciliare le nostre ricerche che trattano la similarità valoriale, non necessariamente tra culture diverse. Terminato con esito positivo il processo di accreditamento, abbiamo costituito X-FOR srl, oggi anche start up innovativa, di cui io sono il CEO. L’idea è quella di lavorare su tre aree strategiche diverse coniugando tradizione, innovazione e tecnologia. Il team è quasi completamente al femminile: io che sono economista d’impresa, una matematica, un’antropologa culturale, un’informatica, un informatico e una partecipazione aziendale. Tra gli obiettivi ci sono lo sviluppo di una Digital Job Platform multi-sided Artificial Intelligence based per ridurre il mismatch di competenze basandoci sul meccanismo del “fit” tra persone e organizzazioni, tra organizzazioni, tra gruppi di lavoro e all’interno di gruppi di lavoro multiprofessionali e multiculturali.

Tra le sue passioni ci sono la musica, i viaggi e i tatuaggi. Ma se dovesse identificare una sua “seconda anima”, oltre quella accademica di docente universitaria, quale sarebbe?

Parto dalla premessa che io sono collettivista, per star bene ho bisogno della dimensione del gruppo; in parole semplici, mi sento più a mio agio in società “del sud del mondo” piuttosto che in quelle nordiche. Credo ci sia una sorta di allineamento tra la mia passione per la musica afro e quella per i tatuaggi, pratica radicata storicamente oltre che culturalmente. Il tatuaggio è un racconto di sé stessi, in generale di appartenenza ad un gruppo. Nel mio caso, per come io lo concepisco, è l’appartenenza a un nexus di valori di riferimento, per cui quelli che io ho e quelli che mi piace guardare negli altri sono quelli molto personali e che spesso sono difficili da interpretare senza un racconto. Ho fatto moltissimi viaggi di lavoro ma pochi per conoscenza dell’altro. Quello che vorrei fare è viaggiare un po’ meno per lavoro o conciliare il viaggio per lavoro con il viaggio della conoscenza. Dal punto di vista musicale vorrei imparare a suonare il flauto traverso e le percussioni. Mi piacerebbe la melodia delicata emessa da quel flauto che messo in una posizione di altura arriva alle persone senza disturbare.

L’entusiasmo che mette nel suo lavoro e nel dialogo continuo con i giovani è contagioso. Qual è il suo consiglio per i ragazzi e le ragazze che stanno affrontando in questi anni il percorso universitario?

Io credo che la nostra generazione sia stata molto fortunata perché per noi è stato facile scegliere cosa fare del nostro futuro: le due opzioni erano laurearsi o non laurearsi. Oggi è molto più complicato. Quello che mi piacerebbe raccontare è quello che ho raccontato a mio figlio. Individuare una persona di riferimento – non un influencer – un vero riferimento. Gli direi di non avere paura di scegliere qualcosa rispetto alla quale si potrebbe sbagliare: sperimentatevi, non pensate che sia sbagliato e quindi potete perdere del tempo. Secondo me il diventare se stessi è un percorso di mutuo aggiustamento, ma se non fai non puoi capire. Vorrei trasferire il valore dell’errore per dimostrare che, anche se si commette un errore, è sempre possibile aggiustare il tiro. Il problema è se non te ne accorgi mai. Mi piacerebbe raccontare un po’ di più che l’errore è un bene.

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