Acqua dei Corsari è una borgata della periferia palermitana. Uno di quei territori urbani intermedi che non sono né città, ma neanche piccolo paese; dove però gli abitanti si conoscono tutti (almeno una volta era così), pur non riuscendo a creare una comunità che possa identificarsi in un quartiere.
Chi vive nelle periferie è destinato a migrare ogni giorno, spostandosi al centro per lavoro, per andare a scuola, per frequentare luoghi culturali e per ogni altra cosa. La frase tipica del borgataro di Acqua dei Corsari è da sempre: “scendo a Palermo”, per dire che stava andando in centro, per poi tornare a sera.
Uno scritto di qualche tempo fa riesuma vecchi ricordi e racconta di quella linea di autobus della ditta Restivo che assicurava i collegamenti con la città delle borgate e dei paesini limitrofi.
Nel luogo, che porta ancora a immaginare navi di pirati e di corsari che approdavano per fare scorta d’acqua potabile, in questo territorio ricchissimo di sorgive, ancora persiste la mia casa natia; abbandonata in gioventù a seguito del trasferimento per lavoro in altri luoghi; edificio che rappresenta ancora il simbolo di tanti ricordi spensierati e di tante vecchie amicizie.
Accade, quindi, che in età matura, quella che registra il lento dissolversi della memoria, ci si illude di poter mantenere ancora in un pugno ciò che è destinato a divenire evanescente nostalgia. E persiste ancora l’illusione di sognare, anche perché è un processo semplice che permette di viaggiare nel tempo senza alcun costo aggiuntivo.
Nasce quindi l’idea di disegnare delle reminiscenze oniriche nella parete della palazzina natia di via Messina Marine, con l’intento un po’ velleitario di invitare i vecchi abitanti a rivivere ciascuno propri ricordi, che ricolleghino avvenimenti e volti di coloro che hanno bazzicato o ancora dimorano da vecchi nel territorio. L’idea sarebbe quella di andare a stimolare in qualche modo un “ritorno al futuro” (con annessi e connessi), elaborabile dagli indigeni di borgata, perché vi è nato o solo perché vi è vissuto.
Per questo particolare intento immaginato, per me SID era l’artista che meglio si poteva adattare allo scopo.
Scoperto attraverso i suoi bellissimi murales del quartiere Capo e Ballarò, una volta contattato, si è subito prestato a fare un sopralluogo per valutare la proposta; innamoratosi immediatamente della parete vuota, accettò di realizzare un suo disegno, diventando così complice fattivo dell’operazione “Amarcord”.
Anche nella mia idea il disegno non avrebbe dovuto avere alcun richiamo a personaggi specifici, affinché il messaggio risultasse assolutamente trasversale, neutro. Ogni osservatore avrebbe così dovuto e potuto trarre un proprio intendimento e immaginare ciò che avrebbe ritenuto più consono.
La preparazione tecnica dell’artista era qualificata (Liceo artistico e Accademia di Belle Arti) e le sue produzioni erano note e diffuse negli ambiti culturali cittadini. Anche delle sue sculture erano state esposte con successo nel recente evento “Settimana delle Culture” di Palazzo Sant’Elia.
Con il coinvolgimento di altri amici graffitari e con particolari installazioni artistiche avevano sfruttato insieme fatiscenti strutture per locandine dei vari cinema, con un risultato interessante e assai originale.
Senza che nessuno della borgata fosse stato preventivamente informato, quindi, una mattina ci siamo presentati sul luogo con un’asta, una scala, dei pennelli e due bidoni di vernice, uno contenente il bianco e un bidoncino nero.
Del quadro che si accingeva a realizzare, SID aveva approntato il bozzetto; che anche a me era stato mantenuto segreto, per un accordo, che era quello che avrei scoperto l’opera man mano che si andava a componendo.
Il primo giorno era stato dedicato al lavoro di tinteggiatura del bianco, che andava a costituire lo sfondo del disegno, tanto che i condomini del palazzo retrostante, convinti che si trattasse dell’apposizione di un isolante per l’imminente stagione autunnale, cominciarono a lamentarsi; segnalando prontamente all’amministratore un’invasione non autorizzata e l’imbrattamento delle poche gocce che inevitabilmente si venivano a depositare sulle tegole color arancio e nella superficie nera di transito dell’asfalto.
Il secondo giorno le cose però cominciarono a cambiare, perché ad un certo punto prese vita una figura simile a un mascherone, alla cui testa furono subito apposti dei piccoli umanoidi, e tanto bastò per incuriosire e far cessare le lamentele; tutti quanti ebbero coscienza e capirono che stava nascendo qualcosa di diverso in quella parete fino ad allora anonima.
Il terzo giorno, quando sotto il mascherone prese forma una gabbia per uccelli, con lo sportello aperto e con dentro un piccolo umanoide intento a fare l’altalena, cominciarono a spuntare tanti condomini e bambini che iniziarono a fare delle domane a SID, per carpire anticipazioni su ciò che si andava a poco a poco rivelando.
Vedere crescere in diretta un Murales è come assistere all’apparire dell’immagine di una fotografia in camera oscura …ovviamente con tempi molto più lenti che necessitano della fantasia necessaria, per immaginare ciò che l’artista intende realizzare dal nulla. Esperienza che consiglio ad altri di vivere anche solo da osservatori.
La tecnica realizzativa di SID implicava l’utilizzo di pennelli e rulli, fissati attraverso aste telescopiche estendibili fino a sei metri; un impiego che necessitava di tanto tempo e richiedeva – oltre a uno sforzo fisico non indifferente – stati di avanzamento di lenta progressione.
Lo slide show pubblicato nella pagina di You Tube cerca di rappresentare l’evoluzione fedele dell’intera operazione creativa.
In conclusione, il murale realizzato, anche alla luce di quanto accennato in premessa, viene a determinare – comunque – “un’opera aperta”, non definita; pertanto ogni osservatore potrà leggere l’opera proposta come meglio crede.
Del resto, si usa spesso dire nel mondo dell’arte che l’autore immagina, crea e propone. Il lettore osserva, riflette su ciò che vede, elabora delle sue considerazioni e addiviene a un risultato.
Com’è ovvio, peraltro, non necessariamente o sempre la proposta coincide con la lettura che ne viene fatta, che è spesso frutto dell’incontro e il confronto di conoscenze e culture differenti.
Durante la realizzazione del murale, sono stati in tanti a venire a chiedere all’artista cosa volesse rappresentare con l’opera che andava realizzando.
La risposta la si può trovare nel numero di questo mese di Fotoit (periodico FIAF). Dove, in un articolo scritto da Massimo Pinciroli (per la rubrica “visti per voi”), si iportano le considerazioni che nel 1976 Robert Doisneau fa riguardo alle immagini. Là dove viene a dire: “le fotografie che mi interessano, quelle che trovo riuscite, sono quelle aperte, che non raccontano una storia fino alla fine , ma lasciano allo spettatore la possibilità di fare a sua volta un pezzetto di strada insieme all’immagine, di continuarla e concluderla a proprio piacimento: una specie di trampolino del sogno.”
Buona luce a tutti!