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I racconti della Sura: “Stazioni”

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L’odore di pioggia nei cappotti sventolati entra nelle sue narici assuefatte all’odore dei treni. E’un continuo alternarsi di viaggiatori. Passi veloci che si fermano per consultare l’orario, poi riprendono in corsette abbozzate per raggiungere il binario giusto, quello che li porterà a destinazione. Ormai lui conosce ogni tipologia di frequentatore della stazione centrale; gli studenti che si rincorrono coi piedi veloci, le scarpe da ginnastica lucide e consumate che volteggiano e frenano sul marmo antico  del pavimento. I professionisti con la borsetta in mano, sempre pulita, appena rigonfia, ma non troppo, i tipi misurati dagli impegni cadenzati giorno dopo giorno.

E le ragazze che raggiungono il posto di lavoro; uffici, negozi, cinema, teatri. Ognuna col suo profumo, con la giornata accesa negli occhi come una lampadina a intermittenza. A loro si può leggere tutto sulla faccia, perché l’entusiasmo trasuda dal loro stesso incarnato.

Ma ci sono anche ragazzi sfatti che, a tarda sera, escono dal lavoro nei fast food e si portano addosso l’odore delle mille fritture, la noia di dover sempre assentire e volare fra i clienti, fra le padelle, fra il brusio di una folla che non ha volto.

Ci sono donne appesantite dagli anni e da borse capienti che si inghiottono thermos e sciarpe e portatrucchi, pannoloni dei figli, medicinali e ombrelli portatili.

C’è la noia del quotidiano e il nervosismo di chi si appresta a un appuntamento.

Vite vecchie e nuove si avvicendano fra i binari lucidi di metallo consumato, arrivi e partenze, viaggi routinari di noia e cambiamenti improvvisi che portano anime diverse a incontrarsi piacevolmente, o a scontrarsi inaspettatamente.

Viaggi che conducono verso destinazioni di vita intraviste in un nuovo contratto di lavoro, nel cambio della città di residenza, nel raggiungimento di una persona lontana.

Lui le vive tutte quante, quelle emozioni; la sensazione di inadeguatezza o la pienezza delle proprie scelte. Il desiderio di chi vuol farsi piccolo per non essere visto e la sfrontatezza di chi si presenta agli altri con passo sicuro, viso sciolto, sorriso composto di compiacimento.

Lui è abituato ai drammi di chi beve e non riesce ad affrontare le sue scelte e a quelli di chi ha agito con troppa fretta, lasciandosi guidare dalla rabbia e dal risentimento.

Lui, Giovanni, nella sua vita precedente, nel continuo tentativo di stare al passo coi tempi, di essere esattamente quello che gli altri si aspettavano, di soddisfare ogni richiesta senza tradire le sue convinzioni aveva finito per essere schiavo del “dover fare”. Non esisteva un momento nel quale potersi sentire libero. Libero di non decidere niente, di ascoltare il silenzio, di pensare a qualcosa di diverso dal “fare”. Ogni suo attimo era proteso verso quello successivo, ogni aspirazione sorpassata dalla sensazione costante di essere in debito verso qualcosa o qualcuno.

Un macigno inconsistente di nebbia densa pesava sulla  coscienza e impediva alla sua semplicità di essere se stessa. Ogni azione seguiva l’altra nella rincorsa di qualcosa che non aveva nome, nella intransigenza assoluta verso un dovere vago ma sempre presente.

Una goccia continua aveva scavato la  positività, la  generosità e aveva trasformato il suo essere sempre a disposizione in una gabbia che lo costringeva, in un busto che gli premeva  sul petto fin quasi a soffocarlo. Fino a fargli decidere di interrompere il suo impegno familiare, civile, sociale. Fino a ridurlo come un uccellino che becchetta qualche briciola in inverno, fino a trasformare la sua vita in un letargo permanente.

Quando si ha paura di riflettere sui propri problemi, di affrontare una realtà che non ci appartiene più, a quel punto è più facile rifugiarsi nella vita degli altri, ascoltare i colloqui di ogni passante, spezzoni di telefonate, pensieri ad alta voce e attraverso essi catapultarsi in vite immaginarie, famiglie idealizzate, amori nascenti o moribondi, rapporti fra madri e figli, padri, nonni, amanti, assassini e boia, vincitori e vinti, perdenti e realizzatori di sogni. E gioire della gioia altrui quasi fosse la propria.

Giovanni era stanco persino di se stesso, ma non c’era modo di districarsi dalla propria identità. Eppure lui aveva trovato il modo di farlo vivendo ai margini, nell’incoscienza di sé per replicarsi e proiettarsi nella vita degli altri fino a stordirsene.

Tanto meno aveva aspettative per se stesso. Ormai si era staccato dalla vita, l’aveva lasciata in situazioni e luoghi lontani; la sua unica occupazione era soddisfare i bisogni primari e aspettare la pietà della morte, che lo avrebbe liberato definitivamente. Non aveva paura; ogni cosa nella sua vita era arrivata, aveva fatto il suo percorso, poi se n’era andata. Sarebbe stato così anche per la morte, un alito insolito si sarebbe portato via il suo.

L’ insonnia era guarita poiché non aveva più aspirazioni, progetti, niente che potesse provocare in lui la sensazione di stare in pena per qualcosa, aveva adottato la teoria del “lascia che sia”. Lui era oltre i problemi, aveva sorpassato ogni umana pena.

Fu in una notte di mezza estate, il caldo sospeso a schiacciare la città, la gente che rientrava dai locali, gambe femminili percorse da un sottile strato di sudore, odori che parlavano di vita, di cucine, di alcool, di erba. Giovanni era fuori, sul marciapiede antistante la stazione, in attesa della prima brezza notturna, dell’umidità che sale dall’asfalto, dai tombini, dai giardinetti ricolmi di carte di gelato e cicche gettate con noncuranza. Aveva una bottiglia di birra fra le dita, il gentile omaggio di uno qualsiasi dei compagni di vuoto proiettati verso l’inesistenza.

Giovanni evitava di ascoltare il brusio, di assecondare gli odori che sfilavano davanti a quel marciapiede ghettizzato, sdrucito di stracci e scatoloni aperti per improvvisare  giacigli temporanei. Ogni giorno Giovanni evitava di introdursi definitivamente nelle situazioni, evitava scientificamente che una qualche reminiscenza di ricordo lontano affiorasse alle sue tempie, gonfiandone le vene, accendendo una seppur minima fiammella di speranza.

A lui la speranza faceva male, toglieva fiato, faceva si che il suo corpo si ribellasse attraverso eruzioni cutanee e scosse involontarie.

Quella sera la gente era tanta; c’era stato un concerto e ragazzi pieni d’entusiasmo affluivano a gruppi verso la stazione sostando sul marciapiedi. Per questo Giovanni decise di spostarsi nel piazzale adiacente e lì si distese, sul suo cartone, insieme ad un numero imprecisato di persone, che era lievitato rispetto a quello degli usuali frequentatori.

Il sollievo della brezza che cominciava a spirare dal fiume era familiare e quella sera i ricordi erano ostinati, tentavano di riemergere dalle galassie lontane dove tutto è oblio. Dopo tanto tempo Giovanni quasi si sentiva lusingato dall’emozione così pura che spontaneamente accendeva un lieve sorriso, ma la ricacciava senza cederle. Ormai la sua durezza nei confronti del passato era spietata, ormai era diventato ruvido, la sua scorza lo schermava dalle emozioni.

E lì disteso, col respiro calmo e le orecchie tese ai mozziconi di discorsi  che si allargavano in cerchi sonori nell’aria, faceva tranquillamente il pieno dei sospiri, delle frasi, della voce altrui.

Con gocce prima distratte poi perfettamente concatenate una pioggerella leggera aveva cominciato a punteggiare il piazzale. Lui alzava il volto  verso il cielo per accoglierla e respirare l’odore di polvere che si alzava dal terreno. I ragazzi sciamavano con un brusio tranquillizzante, il grosso della folla si era dissolto e ogni compagno si stendeva sul suo cartone, incurante della pioggia, quasi essa avesse acceso una gioia collettiva.

Man mano che il cielo dal blu del crepuscolo affondava nel nero lo spazio si ridimensionava; la vita sembrava concentrarsi su quello scampolo di asfalto e sampietrini ancora tiepidi. Nuove figure si sdraiavano sul selciato come in un rito sciamanico, un inno alla notte.

L’avrebbero trascorsa lì, quella notte, fuori dalla stazione intasata di zaini e persone. La calma della città era scesa e aveva pervaso ogni coscienza.

Solo verso mezzanotte si udì uno schiamazzo in avvicinamento. Un gruppo poco consistente ma molto rumoroso procedeva barcollando, cantando canzoni sconosciute, inveendo contro la luna che occhieggiava attraverso la coltre di nubi ormai innocue. Il tepore stava scemando e i primi brividi della notte sfioravano la pelle ancora bagnata dalla pioggia da poco trascorsa.

“ Er polacco, arriva er polacco!”

Una voce su tutte aveva pronunciato sommessamente queste parole e tanto era bastato a provocare un bisbiglio che si concatenava, un telefono senza fili che passava da un orecchio all’altro per raggiungere tutti, proprio tutti.

Giovanni non aveva idea di chi fosse il polacco ma si rendeva conto che tutti avevano paura. Silenzio. La porta della stazione ormai era chiusa, non avrebbero riaperto fino all’alba successiva. Non c’era che aspettare, tentando di farsi piccoli, di coprirsi il volto con una maglia, la camicia, un semplice pezzo di cartone ricavato da quello usato come giaciglio.

Er polacco si avvicinava con passo incerto, urlando, seguito da una corte composta di due uomini ubriachi almeno quanto lui. E brandiva una bottiglia rotta, passando fra i corpi distesi che non osavano muoversi. La paura era palpabile tanto quanto le gocce di sudore sulla pelle, quanto l’aria spessa della notte ancora umida della pioggia serale.

Pareva non avere sonno, quel polacco ubriaco che appena si reggeva in piedi. Camminava, camminava senza sosta fra i corpi e si soffermava qua e là, accanto a questo o quel povero cristo che non osava muovere un muscolo, che quasi smetteva di respirare.

C’era una donna, vicino a Giovanni, che gli faceva cenno di tacere, che gli si avvicinava strisciando sul terreno quasi potesse farsi piccola e riuscire a  mimetizzarsi dietro il corpo dell’uomo.

Ma lui, Giovanni, non avvertiva prepotentemente quella paura generalizzata; era troppo abituato a non dar peso alle cose, a considerare l’oggettività della vita attraverso una sorta di ironia consolatoria. Giovanni aveva imparato a lasciare che le cose accadessero, senza neanche tentare di opporvi resistenza. Giovanni era riuscito ad essere solo, a non dover pensare agli altri. Non per questo era insensibile al dolore altrui o si negava all’aiuto di chi chiedesse il suo intervento.

Giovanni era un uomo gentile e volentieri protesse la donna che gli si era avvicinata facendole scudo col suo corpo. Con estrema naturalezza accoglieva chiunque lo avvicinasse e così avvolse nel suo cartone la donna che, tremante, cercava conforto alla paura.

Giovanni sorrideva appena, nel tentativo di consolare l’amica, quando il polacco gli si avvicinò barcollando pericolosamente. E dimenticò di smettere di sorridere quando il polacco lo guardò senza esitazioni, gli occhi negli occhi, col gesto di sfida dell’animale che vuole dimostrare la superiorità sul nemico inerme.

Giovanni non dette peso a quell’approccio insidioso, non calcolò la traiettoria del braccio del polacco, tanto era proteso a custodire l’integrità della donna e a considerare quella strana condizione  come un insignificante insolito momento passeggero.

Tutto arriva, fa il suo corso, poi finisce.

Giovanni non suppose minimamente che la bottiglia rotta avrebbe potuto conficcarsi nel suo petto ed aprirlo, macchiando di rosso i sampietrini già umidi della pioggerella serale. Né immaginò che la loro superficie porosa avrebbe potuto assorbire sorprendentemente il liquido denso del suo sangue. Si limitò a coprire la compagna con quel suo corpo che era diventato la sua buccia, la sua scorsa. E pensò che quella cortina così  spessa, sporca, ruvida come il mallo della noce, sarebbe stato il mezzo ideale in grado di proteggere lei  dagli sguardi, dal freddo, dal mondo esterno.

Giovanni non si chiese se la donna che stava accudendo lo avrebbe ringraziato del suo sacrificio, né se avrebbe tentato di bloccare il flusso del sangue e provare a tamponare la lacerazione del suo ventre. Giovanni, semplicemente, lasciò che le cose accadessero.

Lui non aveva paura della morte e quasi non si accorse della ferita che si allargava in una  macchia umida e pulsante. Senza smettere di sorridere, con la consapevolezza di raggiungere quel niente che tanto lo attraeva, lasciò il suo corpo arrendersi alla fuoriuscita dell’alito caldo della vita.

 

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2 COMMENTS

  1. Racconto struggente e poetico. Mi ha ricordato l’ultima pagina de La leggenda del Santo bevitore :Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieta e bella!.

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