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Il perno del mondo e il G 20 in Indonesia

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La vicenda ucraina si inserisce in un gioco molto più ampio e complesso di equilibri mondiali che hanno al centro il controllo di quella vasta area chiamata Heartland e che vede coinvolte in un pericoloso risiko tutte le grandi potenze del pianeta e le potenze regionali dell’area; teatro del prossimo confronto sarà la conferenza del G20 in Indonesia.

A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino la storia ha ricominciato a correre e, nonostante la speranza di un continente
europeo stabile e pacifico, la tensione geopolitica ha riaperto
antiche dispute che sembravano svanite. La disintegrazione della Jugoslavia, avvenuta tra il 1992 e il 1999, è stata solo l’inizio di un processo che ancora oggi affonda le sue radici nei due secoli precedenti.


La fine della prima guerra mondiale forse non avvenne mai e, come
disse il generale francese Fock, fu un armistizio durato vent’anni. Ci
fu la disintegrazione degli imperi centrali – russo, austro-ungarico,
ottomano e tedesco, che crearono un vuoto geopolitico che molti
stati (e in particolare la Russia e la Gran Bretagna) hanno cercato di colmare in più di cent’anni. La caduta del muro di Berlino e la conseguente frammentazione dell’Urss, definita da Vladimir Putin «la più grande catastrofe geopolitica della storia», ha generato un’area di conflitto ancora più ampia: un’estensione dai Balcani al mar d’Azov e alle repubbliche caucasiche, denominata dal capo della sicurezza americana al tempo di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, “Arco di Crisi”. Tesi ampiamente dimostrata nei decenni successivi con le guerre in Jugoslavia e in Georgia.

La crisi ucraina, iniziata nel 2008 e portata avanti fino al 2015, ha trovato le sue radici proprio in quella prima guerra mondiale di fatto mai finita. L’onda d’urto di quel conflitto, mise sotto pressione l’integrità’ della Russia post zarista facendola scontrare con i movimenti indipendentisti ucraini. Fu ancora in quel periodo che la mancanza di una potenza regionale fece sì che l’appena ricostituita Polonia intraprendesse con il Generale Pilsudski una guerra contro la Russia già sovietica, al fine di creare un grande stato polacco dal Mar Baltico al mar Nero in grado di contenere una possibile espansione comunista verso Ovest. E oggi è ancora Varsavia che si vuole porre come testa di ponte nella regione di una grande sfera di influenza anglosassone/russofoba, estesa su tre mari: mar Nero, mar Baltico e Mare Adriatico all’interno dell’Alleanza Atlantica, rafforzando le relazioni con Londra e indebolendo i paesi dell’Europa Occidentale.

Espungendo e cancellando così la possibilità della nascita della cosiddetta “Gerussia“ ovvero di quel rapporto privilegiato tra Germania e Russia, le due vere potenze europee: il grande “titano“ russo-tedesco sull’Est europeo che ostracizzerebbe l’influenza del Sea-Power, la potenza marittima anglo-americana, e garantirebbe un assoluto dominio dello Heartland il sogno utopico di Karl Ernest Haushofer per far nascere l’organizzazione delle Pan-Regioni. È la tanto antica quanto eterna dialettica tra le potenze di mare contrapposte a quelle continentali. È lo scontro tra l’Europa e Heartland, incubo di uno dei fondatori della geopolitica, l’inglese Sir Halford MacKinder e del suo pensiero: “Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland, chi controlla l’Heartland comanda l’isola mondo, chi controlla l’Isola Mondo comanda il mondo”. Heartland è così il cuore pulsante, il centro, il perno del supercontinente euroasiatico.

Heartland

Il territorio delimitato a ovest dal Volga e a est dal fiume Azzurro a nord dall’Artico e a sud dalle cime più occidentali dell’Himalaya spiega l’importanza dell’Ucraina. Brezginsky di origini polacche, divenuto consigliere americano per la sicurezza nazionale alla fine degli anni 70 durante la presidenza di Jimmy Carter, definì lo Stato perno per il Cremlino: “senza l’Ucraina la Russia cessa di essere un impero, ma con l’Ucraina subordinata e sottomessa, la Russia diviene automaticamente un impero“ quindi i motivi storico politici alla base del conflitto ucraino, possono estendersi anche alla Bielorussia e alla Moldavia. La presenza di questa grande area post sovietica non ancora ben delineata, si è intrecciata con le vicende del Medio Oriente, creando una linea che va da Damasco a Kiev, in cui gli effetti di uno si ripercuotono sull’altro, con al centro il mar Nero: altro punto nevralgico che avrà molto da dire in futuro. Facendo un salto indietro, alla fine della guerra greco-turca del XIX secolo, le parole del colonnello inglese Lacy Evans furono profetiche: egli manifestò qual era l’assillo russofobo dell’Inghilterra sullo stretto dei Dardanelli: «il possesso della più forte posizione strategica al mondo, Costantinopoli e gli Stretti, renderebbe immediatamente la Russia in grado di dominare il Mediterraneo e l’Asia Centrale e conseguentemente di minare il commercio e la potenza della Francia e della Gran Bretagna. Con Costantinopoli come base, il dominio universale è a portata di mano della Russia».

L’Europa occidentale si è trovata per forza coinvolta nel caos; Londra ha più volte ribadito la propria amicizia con Varsavia appoggiando la divisione creatasi all’interno dell’Unione Europea tra Est e Ovest al fine di mantenere, tramite l’Alleanza Atlantica, il concetto ben espresso da Sir Hastings Lionel Ismay: «tenere fuori i russi, dentro gli americani e giù i tedeschi».

Storia? No. È un obiettivo geopolitico valido che persiste ancora oggi.

Washington è concentrata sul Pivot to Asia, così che è di Londra il ruolo di amministratore delegato all’interno dell’Alleanza Atlantica e per gli interessi statunitensi in casa europea.

L’Europa non si può permettere stati destabilizzati ai propri confini e un eventuale collasso dell’Ucraina avrebbe effetti devastanti sulla tenuta dell’integrità europea. L’Ucraina è destinata a cambiare la storia europea, quella storia che da più di cent’anni non ha mai voluto mettere in piedi una soluzione vera e propria, mantenendo volontariamente una separazione fra teoria politica e pratica politica: le ideologie politiche hanno sostituito il ruolo della fede religiosa nel compattare il consenso dei ceti subalterni, insistendo soprattutto sulle motivazioni etiche di ciascun schieramento. Dopo l’accelerazione globalista dei decenni scorsi, che decretava finita l’epoca degli stati nazionali nella prospettiva di un ordine mondiale tutto dominato da un’unica immensa tecnostruttura planetaria basata sulla grande potenza americana e sull’inevitabile partnership atlantica euro-americana, siamo proprio sicuri che questa visione sia ancora attuale? Lo vedremo con l’avvicinarsi del G20 del I5 e 16 novembre 2022, organizzato sull’isola di Bali.

Sia Xi Jinping che Putin hanno dato conferma della loro presenza, nonostante gli Usa fossero contrari al russo Putin. La presenza di Xi Jinping e di Putin all’ incontro potrebbe essere l’occasione per una sorta di resa dei conti con il Presidente americano, Joe Biden, e altri leader occidentali: tutti, infatti, si incontrerebbero di persona per la prima volta dall’invasione russa dell’Ucraina, avvenuta il 24 febbraio scorso.

La rivalità dei grandi paesi è davvero preoccupante, ha detto Joko Widodo , presidente dell’Indonesia; “ciò che vogliamo noi è che questa regione sia stabile, pacifica, in modo da poter costruire una crescita economica. E non penso solo all’Indonesia, ma anche ai paesi asiatici che vogliono la stessa cosa.

Quale presidente di turno del G20, ha cercato di bilanciare i legami tra le maggiori potenze, resistendo alle pressioni per escludere la Russia dagli incontri. Il presidente Indonesiano Joko Widodo, conosciuto come Jokowi, ha respinto le preoccupazioni secondo cui le tensioni Usa-Cina su Taiwan possano riversarsi sul mar Cinese meridionale, affermando che le nazioni dovrebbero invece concentrarsi sulla gestione delle crisi alimentari, dell’energia e della pandemia. «L’Indonesia vuole essere amica di tutti». Le aree prioritarie di intervento coincidono con alcuni degli obiettivi dell’Agenda Onu 2030. Traguardi globali di sviluppo sostenibile che, se raggiunti, consentiranno di salvare la specie umana e gli ecosistemi.

L’Indonesia è ora uno degli attori economici più importanti dell’area Indo-Pacifico, rappresentante dei paesi che aderiscono all’Asean (Brunei, Cambogia, Tailandia, Laos, Filippine, Vietnam, Malesia e Myanmar) e la sua partecipazione al G20 riflette la necessità di includere uno dei paesi principali del Sud Est Asiatico, la regione più dinamica dal punto di vista economico. Insieme all’Arabia Saudita e alla Turchia, Jakarta è inoltre un membro G20 a maggioranza islamica, facendosi però portatrice di istanze ben diverse da quelle di Riyadh e di Ankara, anche in virtù del differente contesto geografico. Un contesto che le ha permesso di sviluppare un ruolo di ponte fra culture differenti: ed è proprio in questa dimensione che si è sviluppata la sua figura accogliente del G20 più “caldo” di tutti i tempi”

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