Le due sonde Voyager continuano testardamente a funzionare anche dopo essere uscite dal sistema solare. Oltre a riempirci di orgoglio come specie, questo ci può insegnare qualcosa di utile?
Cassandra legge sempre avidamente gli articoli scientifici sui viaggi spaziali.
Per questo ha letteralmente divorato quello apparso sul numero di settembre (649) di “Le Scienze” dedicato ad una completa e riassuntiva descrizione delle missioni Voyager 1 e 2, dalla costruzione fino ad oggi. Per chi non l’avesse presente, parliamo di oltre 45 anni fa.
Voi dove eravate nel 1977?
A guardare il primo episodio di “Star Wars” certamente, ma in quell’anno sono successe molte cose importanti, e la missione Voyager, lanciata appunto in quell’anno, lo era certamente di più. E perché lo dica un fan sfegatato della saga di Lucas, qualche buona ragione ci deve essere.
Ma per chi avesse meno di 50 anni anni un ricordo è impossibile o quasi, quindi Cassandra suggerisce loro di documentarsi sulla citata rivista, od anche su Wikipedia (possibilmente in inglese) e sui siti della Nasa e del JPL.
Riassumendo, due sonde, costruite con le tecnologie di inizio anni ’70 e dotate di alimentazione elettrica tramite reattori nucleari termoelettrici (si, il plutonio è anche una bella cosa) non solo sono state ambedue lanciate con successo, ma continuano oggi a funzionare dopo aver visitato i pianeti da Giove a Nettuno (Grand Tour), trasmettendo le prime foto ravvicinate dei pianeti e dei satelliti, che hanno rivoluzionato l’astrofisica planetaria di allora.
E pensare che non sono mai potuti entrare in orbita attorno ai pianeti, ma hanno solo fatto un unico passaggio ravvicinato (fly-by) a tutta velocità, per accumulare spinta ad ogni incontro fino ad averne abbastanza da potersi sottrarre alla attrazione gravitazionale del sistema solare e lanciarsi nello spazio esterno.
La missione doveva durare 4 anni, e dopo 45 invece le sonde continuano a funzionare, anche se con prestazioni ridotte.
Questo avviene per due motivi:
- il primo è che anche i reattori nucleari si esauriscono, e la potenza elettrica disponibile per gli strumenti e le trasmissioni sta implacabilmente diminuendo;
- il secondo è che con l’enorme aumentare della distanza, le comunicazioni tra sonda e terra stanno diventando sempre più lente e difficili.
A terra poi il controllo missione ha sempre più difficoltà a reperire fondi per continuare a lavorare, ed è stato ridotto da 200 a 40 persone, tutte della fascia di età di Cassandra, ormai in pensione o quasi, che continuano a divertirsi col il loro giocattolo di una vita.
Per risparmiare energia le macchine fotografiche sono state le prime ad essere spente, tanto nello spazio esterno non c’è nulla da fotografare, ma alcuni strumenti sono ancora operativi e stanno rivoluzionando la conoscenza dell’eliosfera del sistema solare.
Ma non è questo che Cassandra voleva raccontare per affascinare i propri lettori più giovani, vuole invece porsi una domanda insieme a loro.
“Come diavolo è possibile che quelle apparecchiature stravecchie continuino tutte, e dicasi tutte, testardamente a funzionare dopo 45 anni?
E’ pur vero che molti progettisti dell’epoca hanno ammesso di aver “barato”, installando componenti migliori di quelli che sarebbero stati sufficienti per i 4 anni di durata prevista, cosa che ha aumentato un po’ i costi della missione, ma questo certamente non basta.
E neppure basta il fatto che i componenti dell’epoca fossero gli stessi usati negli armamenti e nei missili strategici, testati in condizioni di funzionamento estreme.
Il fattore “C” allora? Certamente, ma da solo non basta.
Un’ipotesi molto interessante viene proposta dall’articolo sopra citato. Le sonde erano automatizzate con logica cablata, erano praticamente prive di software e non montavano nessun microprocessore, perché ancora non li avevano inventati.
Che la mancanza di software sia stato un loro punto di forza?
Che la mancanza di complessità sa una dote necessaria per durare?
Domanda interessante, a cui i 24 incauti lettori potrebbero rispondere con leggerezza “Ma i rover marziani sono pieni di software, eppure funzionano anche loro da anni, molto più di quanto pianificato, e riescono anche ad autoripararsi”. Cassandra protrebbe aggiungere anche l’incredibile successo della missione Cassini, che ci aveva anche spedito una “Cartolina da Saturno”.
L’osservazione è certamente corretta, ma decisamente non applicabile.
I rover marziani, rispetto alle due sonde Voyager, lavorano in condizioni estremamente diverse, simili ad una mattina di primavera in campagna rispetto ad una tempesta antartica.
Ed allora, forse, dovremmo guardare all’assenza di software, od almeno alla mancanza di un eccesso di software e di complessità, come qualcosa da valutare con grande attenzione.
Asimov scriveva “Avete bisogno di un fermaporta? Metteteci un robot con un piede grosso.” E stava dicendo la stessa cosa che Cassandra enunciava in questo articolo tanti anni fa, ed in quest’altro, un po’ più recente.
Perché qui non stiamo “celebrando” la funzionalità o le prestazioni, ma l’affidabilità.
E l’evoluzione delle tecnologie informatiche va completamente controcorrente rispetto a questa. Componenti testati in condizioni molto meno severe, complessità del silicio aggiunta a vagonate, quantità immani di software riversate in ciascun componente, tutto scarsamente testato per motivi commerciali.
Questo permette di avere prodotti performanti, eleganti ed in evoluzione rapidissima. Ma anche prodotti inaffidabili e poco durevoli , quando non addirittura pericolosi.
Forse sarebbe necessario che i professionisti e le aziende del settore si prendessero un attimo di respiro e riconsiderassero dove stanno andando.
Forse i governi ed i consumatori dovrebbero fare lo stesso, e chiedere a gran voce un cambio di direzione.
I Voyager, dopo mezzo secolo, sono ancora lassù a meravigliarci, lontanissimi ma pur sempre in grado di ripeterci la loro importantissima lezione.
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