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I Racconti della Sura – Pecore nere

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Una distesa di colori, asciugamani, giovani donne e persino ragazzini che giocano con le biglie. E il profumo dolce delle creme solari. Voci, musica, brusio. E lo stesso groppo allo stomaco del primo giorno al mare.

Sagome sottili, capezzoli induriti dopo il bagno, aguzzi come baionette, abbronzature audaci dalle quali occhieggiano squarci di pelle bianca, segreta.

Sotto a tutto questo, nel mare scomposto di tanta gente, il brusio di sottofondo, come il suono di un altoparlante acceso. E le immagini di quello che verrà.

L’aria è troppo luminosa e lo svolazzare dei parei e dei vestiti leggeri è qualcosa che confonde e accavalla le informazioni. Praticamente irresistibile, nonostante sia incommensurabilmente bello.

Bobo torna indietro, meglio andare verso gli scogli, dove le dimensioni e i movimenti sono meglio accettabili e le ragazze sfuggono, si dissipano, evaporano nei pensieri piuttosto che essere reali.

Perché il brusio ha bisogno di essere regolato fino a raggiungere il punto in cui il segnale è chiaro e nitido. Come la rotella di regolazione della radio che si aggira fra le frequenze fino a trovare quella limpida. La spiaggia è una distesa senza barriere. Lo scoglio è meglio gestibile, soprattutto nell’affollamento estivo; ci sono alture e avvallamenti, e buchi fra i sassi. Da lì le vibrazioni disturbanti  possono sfuggire, allontanarsi, o anche perdersi. Ogni volta il brusio è un sintomo, una strada che si arrampica e guida altrove, seguendo una direzione che non era prevista. Dopo il brusio arrivano la forma e il colore.

Sugli scogli un gruppo di ragazzi, la stessa età di Bobo, eppure così tanta distanza. Gli stessi discorsi, senza importanza, più o meno come quelli dei genitori, dei prof, delle ragazze irraggiungibili.

Sono pochi i ragazzi coi quali Bobo trova sintonia, quando il ronzio si stabilizza in un suono chiaro, o nel silenzio assoluto. E quel silenzio, ogni volta che si verifica, corrisponde al colore verde e all’equilibrio assoluto delle frequenze. Quel colore si deposita sulla persona individuata, quella sulla quale la lancetta incorruttibile dello strano strumento mentale di Bobo ha trovato chiaramente e indubitabilmente la frequenza.

Fra tutte le peculiarità che compongono le persone, che non ne esiste una corrispondente all’altra per mille sfaccettature, mille piccole varianti che danno origine a individualità infinite, lui individua proprio quella, il particolare stato d’animo, la cura emotiva che gli si presenta sotto forma di un colore. Bobo è certo di questa sua capacità, come un rabdomante ha la sicurezza dell’attendibilità del suo bastoncino; la maggioranza delle persone lui le lascerebbe andare come barche che si allontanano, solo con poche di esse sente che non sarà mai possibile lasciarle andare davvero, neanche quando hanno deciso di farlo.

In quel momento, nessuno dei ragazzi aggrappati sullo scoglio a picco sul mare sembra avere qualcosa in comune con lui, nessuno sembra possedere un guizzo, una particolarità che lo distingua dagli altri. Le solite parole, la noncuranza dell’abitudine, la spicciola enunciazione di nomi e cose e gesti stereotipati.

I volti dei ragazzi sono rivolti all’orizzonte, i loro capelli spioventi sul viso disegnano ombre e strane angolazioni di luce. Il ragazzo verde, quello dove è caduto il radar metafisico di Bobo, guarda lontano, le dita intrecciano un sottile nastro di stoffa, il sudore gli cala dalla fronte e la bocca annoiata biascica parole a bassa voce mentre il colpo dell’onda copre in parte la conversazione.

Il fumo delle sigarette, anch’esso privo di interesse, è solo un’abitudine malsana portata avanti per inerzia. Fra parole rade, spazzate via dagli spruzzi dell’acqua.

Il pomeriggio è il momento più difficile, la porzione più lunga del giorno, la più uggiosa.

Il caldo è pesante, la solitudine sembra infinita, le speranze si affievoliscono nell’inevitabilità dell’attesa. I pensieri si appiattiscono sulle spiagge lontane, disseminate di corpi sonnolenti  in attesa di quello che verrà, la sera, fuori, nei locali, per strada.

Bobo studia il ragazzo verde e lo trova quasi antipatico. Bello, sicuro, apatico. Sputa boccate di fumo e gli altri lo guardano. Evidentemente è il leader, il capobranco, quello che detta il programma nell’estate sonnolenta di chi non è turista ma abita nel bene e nel male quella terra di mare.

Un primo ragazzo, alto e snello si alza sullo scoglio caldo e improvvisamente si tuffa. Il suo stile è buono, è quello di chi è cresciuto nell’acqua. Gli altri lo seguono in salti scomposti, senza esibizionismo, solo con la voglia di giocare che nasce da uno spruzzo, da un gesto, dalla meravigliosa condizione di essere giovani.

Il ragazzo verde resta a guardare, sorride, incita gli amici a tuffarsi di nuovo, li sprona a picchiottarsi vicendevolmente e loro si spingono, si abbracciano nel lasciarsi cadere in acqua, compiono contorsioni miracolose. Bobo li invidia, solo un po’. Ma proprio non riesce a capire come il suo radar possa aver individuato quel tipo così sicuro e annoiato che non dimostra un minimo di empatia, di compassione verso chicchessia.

Un vecchio cane arriva scodinzolando annusando ogni anfratto; si sofferma in una piega della roccia a graffiare con le sue unghie spesse per scrostare qualcosa rimasta attaccata sulla superficie rovente. I ragazzi lo scimmiottano mentre cercano di inventare qualcosa che faccia trascorrere l’interminabile pomeriggio. Chi dice che i giovani non si annoiano forse non è mai stato giovane.

Bobo non si chiede come sia capitato proprio lì, ormai sa per consuetudine come i suoi passi siano guidati dalla frequenza che lo chiama e diventa un pungolo irresistibile, un desiderio che deve essere appagato. E continua a osservare quella scena usuale, che non da adito ad alcun sentimento, che non rivela nessuna azione straordinaria. I ragazzi nuotano, semplicemente. Quello verde si è sdraiato sul suo asciugamano sgargiante e con un cappello che gli copre mezza faccia li segue di sottecchi lanciando ogni tanto qualche grido di incitazione. Il cane lo sorpassa e se ne va, carico di pelo ispido, di gambe incerte, di anni trascorsi. Qualcuno torna dal bagno, col fiato grosso per risalire la roccia, il petto che sussulta, si lascia scaldare dal sole inferocito.

Il ragazzo verde si muove pigramente, consulta il suo cellulare, spippola i messaggi, le immagini, ascolta  musica che si alterna senza continuità.

Poi scatta quell’ora così calma e vuota in cui i pensieri si confondono l’uno con l’altro e uno strano benessere soporoso si impossessa della coscienza. Il suono delle onde diventa una litania che scivola in un vortice quasi sensuale, il rumore di voci lontane innesca sogni in cui i fantasmi del passato si fanno presenti e incarnati, quasi persone ormai lontane fossero ancora lì accanto, quasi le si potessero toccare allungando la mano.  Un richiamo, da lontano, una mano che fa cenno dal mare che si è ingrossato. E’ il  ragazzo  alto e magro, quello che si è tuffato per primo che gioca fra le onde e indica gli altri. Il ragazzo verde lo percepisce appena, sorride con lo sguardo che non è più lì, troppo bello crogiolarsi fra le gioie e i dolori di quello che ormai è passato. E lo scoglio isolato, frequentato solo da pochi ragazzi del posto, è il luogo ideale dove dedicarsi al niente.

Anche Bobo si lascia cullare dalla dolce sonnolenza dell’inutile pomeriggio finché il suo sguardo ormai privo di attenzione nota quella macchia di colore, che per lui è una certezza intensificarsi e circondare perfettamente il profilo scolpito del ragazzo semi sdraiato.

Allora il suo torpore comincia a bucarsi, gli orli smangiucchiati dalla consapevolezza che qualcosa sta per accadere. Ma non riesce a comprendere, niente sembra cambiare, nessun segnale indica che qualcosa stia per accadere. Eppure una strana tensione si risveglia, il calore abbandona improvvisamente il suo corpo e il sudore diventa freddo. Il ragazzo verde ora è verdissimo, quasi fosforescente e il suo corpo innesca un ritmo diverso. I muscoli si tendono, le gambe si irrigidiscono, come quelle dei felini, pronte per il balzo.

Gli altri giocano ancora fra le onde, le grida attutite sono appena comprensibili ma gli occhi del ragazzo verde guardano altrove, nel mare scintillante che si increspa e si avvolge su se stesso.

Lontano, una macchiolina mobile  si dibatte, annaspa, sparisce e riemerge, completamente senza suono. Forse un vecchio legno reduce dell’inverno precedente, sembra distendersi sul pelo dell’acqua ma una corrente lo risucchia, lo porta indietro, non lo lascia avanzare.

Il profumo di salsedine si è intensificato con l’ingrossarsi dello sciabordio che si rompe sugli scogli,  il suono profondo del mare si è incupito e gli schiaffi delle onde sprigionano schiuma che lascia scoppiare le sue bollicine fragranti. I ragazzi guardano senza vedere, valutano se sia possibile raggiungere quel tronco levigato  che emerge con fatica per essere subito mangiato dal mare in ebollizione. Le onde grosse, la sfida del pericolo, il gioco trascinato allo spasimo.

Ma il ragazzo verde calcola, intensifica lo sguardo, i sensi allo spasimo. Sente che qualcosa si è rotto, che il pomeriggio sta perdendo i suoi connotati, percepisce l’odore sinistro della tragedia.

Richiama gli altri con un urlo potente, un gesto secco, ritto come una molla saltellante sullo scoglio rovente. Cerca di capire, ma il tempo è necessariamente poco.

Ci sono momenti che non danno tregua, non concedono ripensamenti. Bisogna capire, ragionare freddamente, lasciare andare le ombre del passato e agire.

Il ragazzo verde corre sugli scogli spigolosi con l’abilità di un funambolo, schiva le punte aguzze, il suo corpo magro vola nelle correnti d’aria per giungere al punto più vicino al legno che affiora. E senza pensarci, senza un attimo di esitazione si tuffa nella schiuma che tenta inutilmente di sbatterlo contro la roccia.

La sua bracciata è efficace, il suo stile sa districarsi fra le correnti, sa evitare i mulinelli che lo osservano come occhi concentrici. Lui non si lascia convincere, non esistono canti di sirene che possano fermarlo. E man mano che si avvicina al grosso tronco levigato scorge una pennellata di colore. Il rosso di un costume da bagno affiora di tanto in tanto dal ribollire di schiuma che frigge e schiocca e corre lontano rollando sulle onde sottostanti.

Il ragazzo verde conosce bene il suo mare e la paura è un sentimento che non gli appartiene. Tuttavia ha imparato ormai da molti anni ad essere saggio quando ha a che fare con lui. Ha imparato a rompere l’onda, ad attraversarla trasversalmente, a cavalcarla per farsi trasportare lontano.

In poco tempo raggiunge il tronco col costume. Un tronco sfinito, quasi paonazzo, che non ha neanche la forza di aggrapparsi al suo corpo forte.

Allora cerca di sostenerlo, di far affiorare la sua bocca di ragazzo legno in modo che possa ossigenarsi. Cerca in ogni modo, con bracciate cadenzate in concomitanza della forza motrice dell’onda di emergere dal vortice che ha imparato ad affrontare.

Il cerchio attraente, l’occhio del mulinello è stato superato. Nell’acqua relativamente calma il ragazzo compie uno sforzo tremendo ma necessario per consentire al ragazzo albero di mantenere la testa alta, di respirare. Con fatica procede verso gli scogli senza mai guardarli, la sua concentrazione è polarizzata dal momento; un’onda dietro l’altra, una spinta dietro l’altra, un metro per volta. Questo è l’unico modo per non arrendersi. E quando sente la forza propulsiva della corrente farsi più regolare, cadenzata e calcolabile capisce di aver quasi compiuto la sua missione.

Il ragazzo albero ora giace nell’avvallamento dolce di una roccia piatta. Bobo assiste da lontano, incapace di capire come il suo radar possa essere infallibile, come fra la folla, spesso indistinguibili dagli altri, si nascondano individui verdi.

Non esistono santi,  ognuno di noi può esserlo. Esistono persone capaci di mettersi in gioco, di concepire se stessi come rotelle di un ingranaggio più grande. Talvolta possono sembrare diversi, mantenersi in disparte, come Bobo, altre volte si mimetizzano perfettamente fra gli altri.

Sovente vengono chiamate pecore nere.

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