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Continua la pubblicazione dei Racconti della Sura di Sura Bizzarri. Questo evoca altri tempi, ma pur sempre tempi di guerra, con le sensazioni di un esserino che avverte tutto, che riordina le scene proiettate attraverso oggetti riflettenti, che le deformano, ma che alla fine gli danno la percezione di sè. Un racconto davvero pieno di poesia.
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Accadde per caso, proprio come accadono molti degli avvenimenti e incontri della nostra vita.
Ero fuori senza un motivo preciso durante un tiepido pomeriggio tipicamente primaverile. Alcuni operai del Comune, braccia tese e piedi ben piantati su lunghe scale metalliche, stavano staccando dai fili tesi della corrente i vecchi lampioni che per più di cento anni avevano illuminato le sere e le notti della piazza. Stavo assistendo alla loro dismissione in favore di nuovi prodotti a basso consumo energetico. Mi fermai a guardare, gli occhi protetti dall’alto edificio che si frapponeva fra me e il sole. Ricordo che l’angolazione della luce incastrata nella fessura fra due costruzioni combaciava perfettamente con le scanalature circolari che decoravano il lampione. Ero dispiaciuto; quelle belle forme lucide e tondeggianti, quelle pance ben tornite ma leggermente picchiettate dalle intemperie avevano un fascino che profumava di storia, di stagioni trascorse, di incontri e vite ormai tramontate.
L’operaio, scendendo gli ultimi gradini col lampione fra le braccia, discuteva col collega del suo smaltimento. La cosa mi colpì; dopotutto io stesso avevo trascorso lunghe serate seduto sui gradini della chiesa, sotto la loro luce rotonda, a parlare del tutto, del niente, o semplicemente a lasciarmi invecchiare dalle ombre serali.
L’operaio doveva aver notato l’insistenza del mio sguardo.
“Li vuoi? Noi li buttiamo via”
Non ebbi un attimo di esitazione. Erano tre grossi lampioni in metallo opacizzato dal tempo, tre cupole rovesciate dotate di gancio per essere appese, perfettamente funzionanti, belli, vissuti.
Fu qualche giorno dopo che, ultimato il lavoro di imbiancatura della mia nuova casa, appesi quei tre oggetti iconici nella grande sala che ancora dovevo imparare ad abitare.
E appena l’aria fu abbastanza scura sedetti sul divano, solo con me stesso, senza neanche premere l’interruttore della luce. Bastava la luna a rischiarare la mia sera e l’intimo piacere di abitare la nuova casa era sostenuto e amplificato dall’idea di avvertire, appesi sopra la mia testa, quei lampioni vissuti da un numero imprecisato di persone, prima e durante la mia stessa vita.
La luce della luna si rifletteva sulla loro superficie tonda, concava e levigata, lo scorrere veloce delle nubi li muoveva di immagini suggestive, evocative.
Pur essendo oggetti inanimati, i miei lampioni erano dotati di una vita propria che sentivo palpitare, di riflesso, dentro me. E man mano che le nubi, spostandosi veloci nel cielo, lasciavano rotolare le loro ombre morbide sulla superficie lustra dei miei lampioni, lì, sotto i miei occhi ipnotizzati, nascevano figure sempre più nette e precise. Le iniziali forme vaghe e transitorie si definivano e addensavano in immagini tridimensionali di compiuto significato. Gli spazi vuoti intorno ad esse assumevano al contempo aspetti familiari. E il cielo, quello appena fuori dalla finestra, pareva trasferirsi all’interno dell’ellisse della loro campana. In ognuno di essi la stessa scena si dipanava in momenti successivi raccontandomi una storia.
Quelle che sembravano macchie parevano svilupparsi in corpi contorti, bocche aperte senza più fiato, e ventri squarciati, uteri secchi strappati dalle viscere, gambe spezzate e teste rotte. La fecondità fatta sterile, l’aria risucchiata dai corpi e la vita estirpata. E membra, membra dappertutto.
Bimbi sciupati per sempre, sfilacciati dalle deflagrazioni e calpestati dalle macerie, cani guaenti con gli addomi strappati in attesa di una morte misericordiosa.
E lacrime ormai asciutte striate sui lineamenti contratti dagli spasmi, corpi e distruzione. Carne sangue e macerie. E tanta polvere; volti diafani mascherati di cenere, dita sepolte affioranti fra folate di vento e sabbia. L’aria pallida delle prime ore dell’alba abbacinata di materiale color deserto, sparso dappertutto, sospeso e baluginante di pagliuzze impazzite.
I lampioni erano casse di risonanza, varchi temporali che bucavano il presente, lanterne magiche del passato che proiettavano immagini stampate su lastre di vetro, trapassate dalla luce di piccoli fuochi, altrettanto magici. E in quella condizione sovrannaturale che mescolava cielo, nubi e trasparenze io annaspavo fino a lasciarmi travolgere.
Il cielo continuava a correre e, attraverso gli occhi, l’intero mio corpo prendeva parte attivamente allo spettacolo che stava vivendo, all’interno del padiglione metallico che lo custodiva.
Man mano che la scena si dissipava in quella successiva, man mano che mi addentravo nella storia che il passato stava raccontandomi, il mio corpo si faceva leggero fino a perdere spessore e consistenza per trasferirsi, in puro spirito dotato di sensi, nella realtà parallela che stava scorrendo nelle lanterne magiche. La migrazione di me stesso era un fenomeno assolutamente naturale, nessuna paura, il mio coinvolgimento era totale, non ero più lo spettatore ma uno degli attori sulla scena devastante della guerra.
Proprio lì, in quella situazione estrema io mi trovavo. Un grumo di qualcosa di cui ignoravo l’esistenza, un essere appena abbozzato che vedeva solo macerie e corpi agonizzanti. Non avevo coscienza alcuna della mia forma, della mia identità; ero un pesciolino spaesato che boccheggiava nell’aria densa di polvere e metalli.
Vedevo male, un mondo sfocato e arido, quasi immobile, solo sbuffi di cenere e sangue che si allargava in macchie violente sui vestiti, il sole nascente pallido e sterile per il pulviscolo nell’aria. Un mondo sulfureo percorso da gemiti indecifrabili, per me.
Qualche uomo vestito grossolanamente si aggirava fra i corpi riversi, scuotendoli con calci distratti. Ed io inalavo l’odore del ferro, della polvere, l’odore pesante dei metalli dissolti nell’aria. Sentivo una forza crescere che non riusciva a trovare impiego o direzione. Ero un grumo, solo un grumo dotato di occhi e olfatto, e fame e bisogno di contatto.
Un animale a quattro zampe passò accanto a me, si soffermò ad annusare il mio involucro, sentii il suo naso freddo posarsi sulla mia pelle.
L’aria cominciava a schiarirsi, ma nuvole di polvere si alzavano dalle macerie per intorbidarla e renderla grossolana, opaca e disgustosa. Muovevo gli arti, evidentemente dovevo esserne dotato, senza precisa consapevolezza. Una forza istintiva che non conoscevo mi spingeva a cercare qualcosa, a protrarmi insistentemente verso una ricerca ignota. Così annaspavo intorno a me, ma nessun contatto nel quale inciampavo freneticamente era capace di restituirmi calore.
Tremavo, avvertivo freddo e fame, bisogno di attaccarmi a qualcosa, a qualcuno, a un essere tiepido. Il mio piccolo corpo era privo di protezioni, era nudo, incustodito, era provato da una forza prepotente che rasentava l’esplosione, da un disagio crescente che mi spingeva a piangere come estrema richiesta di aiuto. Inascoltata.
Nell’aria quasi irrespirabile c’era un richiamo sordo ma estremamente percettibile che mi animava, che mi portava all’esasperazione. Fra l’odore ferroso degli elementi dispersi nell’aria e del sangue che fuoriusciva copioso dalle membra scomposte intorno a me, io captavo a tratti una fragranza che non avevo mai conosciuto eppure era familiare, era una panacea che dovevo assolutamente raggiungere. Ad essa anelavo, con tutto me stesso, col mio corpo, con la stizza, con il desiderio, pur senza la consapevolezza precisa di cercarla e, soprattutto, senza la più vaga idea di cosa fosse. Era l’istinto che accendeva le mie narici, che inaspriva la frustrazione, che muoveva le mie labbra alla ricerca della soddisfazione (dovevo dunque averle, le labbra) e faceva si che tutta la mia consistenza, a me completamente sconosciuta, si protendesse verso un’idea che neanche immaginavo ma che sentivo avrebbe dovuto materializzarsi.
Il fragore si era placato, solo tonfi sordi di scarponi pesanti che cercavano fra le macerie, solo lamenti che gradatamente si spegnevano e i singhiozzi di chi accorreva alla ricerca dei sopravvissuti. Io sentivo movimento e nella mia quasi cecità ogni spostamento equivaleva all’intensificarsi delle ombre nell’aria pallida appena rischiarata. L’odore, il segno che guidava la mia percezione si intensificava fino a diventare un pungolo emotivo irrefrenabile.
Io, piccolo grumo, materia ignara della sua condizione fisica, sequela di cellule che non trovava codificazione alcuna, ero magnetizzato positivamente nei confronti di una forza sconosciuta che esercitava attrazione.
Il desiderio era spasimo e udivo la mia voce piangere, gridare. Percepivo la materia di cui ero costituito contrarsi e premere internamente prima di slanciare ogni sua forza verso l’esterno, verso il richiamo che martellava senza sosta. Avrei voluto salire, scendere, cambiare posizione, ma non riuscivo a muovermi.
Improvvisamente le ombre si addensarono su di me. Qualcuno si stava avvicinando oscurando la porzione di cielo che riusciva ad oltrepassare la polvere.
Udii il suono di voci simili alla mia e una fonte di calore investirmi. Mani ruvide e calde si posarono su di me. Non avevo mai provato niente di più confortante; un appiglio sicuro e l’odore cresceva, era sempre più vicino, quasi alla mia portata.
Il foro dal quale riuscivo ad esprimermi, doveva essere la bocca, cominciò ad urlare senza sosta fiutando una ricompensa sconosciuta che urgeva e mi irrigidiva, che era indispensabile.
Le mani che mi avevano raggiunto impugnarono la mia consistenza e mi sollevarono, mi racchiusero in qualcosa di caldo e morbido e mi accostarono a un corpo. Quello era esattamente il calore che mi era necessario, la ricompensa alla mia richiesta di aiuto. Ma ancora non era abbastanza, ancora avvertivo forte e feroce il richiamo dell’odore e nell’incompletezza della mia vista immatura volgevo l’orifizio dal quale usciva la mia voce alla ricerca di un calore ancora più forte, del sapore, del mio completamento.
Cominciai a muovermi scompostamente mentre le voci intorno a me pronunciavano idiomi sconosciuti, in tono basso ma concitato.
Le mani si stavano prendendo cura di me, mi avvolgevano, mi cullavano, finché avvertii il corpo che mi aveva raccolto piegarsi di nuovo verso il basso e, a quel punto, sentii l’odore crescere, avvicinarsi, diventare infinitamente importante, l’unico elemento che percepivo nettamente.
I miei sensi impazzivano e, nel momento in cui strinsi fra le labbra il capezzolo indurito e sporco di sangue della donna che giaceva a terra, fra corpi privi di vita, un’onda di calore si espanse in cerchi concentrici potenti e dolci attraverso la mia materia. E il grumo che io rappresentavo diventò improvvisamente il centro dell’universo. Bastò quel contatto perché prendessi coscienza di me e di lei. Che forse eravamo la stessa cosa.
E a lei mi aggrappai, al suo seno morbido e generoso, al suo odore di ferro che non riusciva a nascondere quello sotterraneo, profondo, nascosto fra gli orrori della guerra, che da lei emanava.
Tutta l’atrocità e la paura e l’insoddisfazione che avevo subiti si placarono nell’atto sublime di succhiare il nutrimento e, insieme ad esso, l’appagamento totale.
Dal momento in cui mi impossessai di quel capezzolo e succhiai dalla mammella malconcia io sentii di essere qualcosa, non più un grumo, io sentii di essere nato, di essermi ricongiunto ai sogni che non ricordavo ma che, evidentemente, dovevano aver accompagnato tutto il periodo della mia gestazione. E in quella beatitudine semplice, adagiata nella distruzione, incongrua ma potente come antidoto allo scempio della morte, cominciai la mia esistenza.
Era il nove settembre millenovecentoquarantaquattro ed ero appena venuto al mondo.