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Aldo Capitini e l’invenzione della Marcia della Pace e della Fraternità Perugia-Assisi

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L’illustrazione di Mauro Biani del 2011 per il 50° anniversario della Marcia della pace. Biani vignettista, artista e blogger raffigura Capitini alla testa della manifestazione. Mauro Biani, è particolarmente impegnato sul fronte dei diritti umani e delle tematiche pacifiste.
Tempo di lettura 7’.

Domenica prossima, 24 aprile, la domenica di primavera che precede il giorno in cui nasce l’Italia così come noi la conosciamo e in cui viviamo, si terrà l’edizione straordinaria delle Marcia della Pace e della Fraternità. Si tratta dell’edizione forse più cogente da quando esse videro la luce nel 1961 ad opera di Aldo Capitini che potremmo definire, semplificando enormemente (pur consci di quanto Capitini detestasse le semplificazioni), il Gandhi italiano.

Indubbiamente in questa iniziativa, che si svolge regolarmente da 61 anni, risiede uno dei maggiori e tangibili lasciti dell’attivista perugino e per questo rappresenta un appuntamento difficilmente eludibile per chi apprezza il suo insegnamento e il suo esempio.

Si può non condividere il manifesto degli organizzatori della Marcia del 24 aprile, si possono avere opinioni diverse sulla via per far tacere le armi nell’est d’Europa, in ogni caso la Marcia, almeno per me, rappresenta, sulla scia di Capitini, una testimonianza civile di orrore nei confronti di chi usa le armi e la violenza come bere un bicchier d’acqua.

Capitini, le parole che sono atti

Proprio in vista di questa manifestazione vi propongo due brevi letture per me emblematiche del pensiero e della figura di Aldo Capitini.

Purtroppo il pensatore perugino e la sua concretissima attività non hanno ancora ricevuto, nella nostra comunità, il rilievo e l’attenzione che meritano. Io stesso ne ho appreso solo tardivamente l’esistenza (ero già all’università) coinvolto per caso in un sit-in (o qualcosa di simile) guidato da Marco Pannella. Un incontro casuale che mi avviò su un nuovo percorso di impegno civile.

Il primo scritto che vi propongo è tratto dal saggio Rivoluzione aperta, ripubblicato da goWare nel 2017. Il secondo è un tributo in versi di un altro grandissimo italiano, Danilo Dolci, all’amico e compagno di tante battaglie per la libertà e la giustizia sociale. Iniziamo con lo straordinario passo di Capitini.

Capitini sulla rivoluzione aperta

Siamo rivoluzionari

Più volte fino ad oggi sono state fatte «rivoluzioni», e ci sono quelli che vogliono anche ora fare una rivoluzione. Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite.

Ma sappiamo anche che noi non possiamo fare tutto e subito; possiamo incominciare, unirci con chi è d’accordo con noi, lottare, sacrificarci, ma non possiamo con tutte le nostre poche forze (anche se, unendoci, siamo più forti) liberare il mondo da tutto il male.
E allora torneremo indietro?
Non faremo nulla?
Ci faremo prendere dallo scoraggiamento?
Lasceremo le persone sfruttate, i vecchi trascurati, i bambini affamati, gli uomini senza lavoro diventare banditi, pazzi, malati?
Niente affatto: noi faremo ciò che potremo, faremo molti passi raccogliendo le nostre forze per andare verso la salvezza e la luce giusta per tutti.

I rivoluzionari che non siamo

E allora possiamo dire agli altri rivoluzionari: voi avete ragione di essere insoddisfatti di questa società sbagliata e ingiusta, ma come potrete voi cambiare tutto e subito con le vostre mani?
Volete distruggere le persone che vedete come avversarie, e anche quelle che sospettate di non essere rivoluzionarie?
Volete che la rivoluzione avanzi con le stragi, le torture, il governo assoluto di un gruppo che impedisca a tanti altri di parlare, di informarsi, di fare critiche, di vivere?
Vogliamo una società di tutti, e cominciamo con l’ammazzarne a migliaia?
Vogliamo una società amorevole, e cominceremo col coltivare e stimolare l’odio?
Vogliamo una società libera, e aumenteremo la tirannia, l’assolutismo?
Vogliamo un fine buono e pulito, e useremo mezzi sporchi e terribili?

La nostra rivoluzione è diversa

Ci vengono a dire che ci sono state altre rivoluzioni, inglese, americana, francese, russa, cinese. Ma noi rispondiamo che non vogliamo qui giudicare quelle rivoluzioni né i metodi che hanno usato né i risultati che hanno raggiunto.

La storia deve mutare, e oggi i nostri problemi li vediamo in un’altra luce; rispondiamo che la nostra rivoluzione, oggi qui e subito, ha qualche cosa di diverso, perché è fatta insieme con tutti, con l’animo nostro unito a tutti anche se non ci sono accanto, è rivoluzione per tutti e con tutti, non escludendo e non distruggendo per sempre e non dannando in eterno nessuno: è rivoluzione corale.

Se la nostra rivoluzione corale e totale, per la liberazione di tutta la società e di tutta la realtà, non può realizzarsi con le nostre mani in un colpo, faremo tutto ciò che potremo e resteremo aperti perché il resto avvenga fuori delle nostre forze.

Noi non daremo dolore e male a nessuno

Se noi non possiamo togliere tutto il dolore, tutto il male, tutta la morte, cominceremo con l’amare tutti non dando noi il dolore, il male, la morte. È con la fede che il resto del dolore, del male, della morte, scomparirà.

Se ci sforzeremo di usare mezzi puri e di tenere una coscienza onesta e amorevole, questa sarà l’offerta che facciamo e la garanzia che abbiamo che avverrà una liberazione totale. Per questo non ci accontentiamo di una piccola o grande riforma parziale, perché vogliamo un cambiamento totale.

Una riforma parziale sarà utile: anche un aumento di salario per chi guadagna troppo poco, anche una casa a buon prezzo per chi abita nelle grotte (come ce ne sono in Italia), sono riforme sacrosante; ma a noi non bastano, perché vogliamo una liberazione totale, siamo rivoluzionari fino in fondo.

Ma se non siamo riformisti facilmente contentabili, non siamo nemmeno rivoluzionari che credono di ottenere tutto con la violenza e l’assolutismo, e poi si accorgeranno che non basta.

Perché siamo nonviolenti

Trasformiamo i nostri animi usando mezzi nonviolenti verso tutti; e questo amore e sacrificio ci dà la garanzia che ciò che non potremo cambiare noi con le nostre forze umane, sarà cambiato dal futuro, dall’infinito, dalla natura, dalla storia, da Dio (secondo le varie fedi: qui non importa; ciò che conta è questa apertura oltre le nostre forze attuali, in nome dell’amorevolezza per tutti, della rettitudine, della purezza nei valori di cui la coscienza si alimenta).

Come uomini attuali potremo arrivare fino ad un certo punto, ma se eleveremo intimamente la nostra coscienza, prepareremo l’apertura perché venga integrata la liberazione anche per ciò che non possiamo fare.

La nostra rivoluzione sarà di tutto e di tutti

La nostra rivoluzione è totale, perché vuole una totale liberazione di ogni angolo e aspetto e struttura della realtà e della società dal dolore, dalla morte, dal male morale e sociale.

La nostra rivoluzione è corale, perché la facciamo in nome non di un gruppo, ma di tutti, e avendo tutti nel nostro intimo (come parenti, come compagni) anche quelli che ci stanno contro (ma possono cambiare), ed anche i morti, che sono uniti a noi e ci aiutano.

La rivoluzione che vogliamo è aperta, perché fa e tenta tutte le trasformazioni che vede e può, ma, sapendo che non ha le forze per liberare totalmente dal dolore, dalla morte, dal male morale e sociale, ha la speranza e l’apertura, che se noi cominciamo bene, con mezzi eguali al fine e puri come il fine, il resto ci sarà aggiunto dal futuro, dalla storia, da Dio.

Noi diamo la nostra buona fede, amorevolezza e apertura; e il futuro, la storia, Dio, aggiungeranno il completamento totale della liberazione: ci troveremo in una realtà liberata.

Da Aldo Capitini, Teoria e pratica della nonviolenza, La grande rivoluzione dell’inclusione per il tempo dell’istigazione all’odio, goWare, Firenze, 2017, pp. 17-19

Danilo Dolci su Capitini

Passo eccezionale quello di Capitini appena scorso. Ed ora veniamo ai versi che nel 1974 Danilo Dolci gli ha dedicato.

Nella poesia è citato questo episodio. Nel 1952, quando Danilo Dolci, da poco arrivato da Trieste a Partinico, nella Sicilia occidentale, si stende nel misero letto dove un bambino è morto di fame e comincia un digiuno ad oltranza contro la povertà in cui versano le masse contadine siciliane, l’unico biglietto che gli arriva proviene da Perugia, ed è firmato Aldo Capitini.

Da allora Capitini sostiene e rilancia sul piano nazionale l’opera sociale, pedagogica e politica, antimafia e nonviolenta, di Dolci, in un lungo sodalizio, fitto di scambi epistolari e con due libri dedicati al lavoro di Danilo Dolci.

Ne sento il vuoto

Era morto un bimbo, di fame:
recline sulle braccia della madre gialla,
il latte trovato in farmacia
scivolava sulle labbra
inerti – era tardi.

Terribilmente semplici avevamo deciso
di metterci al posto del piccolo,
uno dopo l’altro,
fin che al paese non arrivassero
mezzi per lavorare
per vivere:
nella stanza terrana del Vallone
tra la gente stupita
(curiosavano i piccoli
il prete era sparito,
il medico e i notabili
tentavano velare tutto
con la parola intossicazione
per continuare
a parassitare tranquilli il paese,
i giovani meditavano che fare,
mi piangevano i vecchi – perché, tu? –
sentivo, sotto, un pozzo senza fondo)
dopo giorni la postina è venuta
con una lettera, di uno sconosciuto,
firmata Aldo Capitini.

Poi l’ho incontrato, in alto nella torre
del Comune di Perugia,
la dimora del padre campanaro:
era basso ma vedeva lontano,
impacciato a camminare
ma enormemente libero e attivo,
concentrato
ma aperto alla vita di tutti,
non ammazzava una mosca
ma era veramente un rivoluzionario,
miope ma profeta.

Da: Pasquale Pugliese, Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini. Elementi per la liberazione dalla violenza, goWare, Firenze, 2018, pp. 28-30

Tanto era rivoluzionario, Capitini, che “non ammazzava una mosca”. Quale altro rivoluzionario può dire altrettanto?

L’ultima parola al sidolizzatore dei miei articoli: “garibaldinamente”, a malincuore, obbedisco e metto “in riga”, come desidera l’editore, le parole d’invito a partecipare alla Marcia della Pace che si svolgerà domenica prossima. Non ne condivido le indicazioni, frutto illogico mutuato da un’organizzazione di “sinistra” striminzita e fumosa, lontana anni luce dalle “utopie concrete” dei Dolci e dei Capitini.

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