To get out
Come annunciato, dopo il brano da Guerra e Pace, vogliamo invitarvi a leggere alcuni passi di un pamphlet, recentemente ripubblicato in italiano da goWare, scritto da John Kenneth Galbraith, uscito nel 1967 ed edito dal New York Times con il titolo esplicito How to Get Out of Vietnam. Sì appunto get out!
Un problema che abbiamo anche tutti noi e, soprattutto, i russi se non vogliono essere “buttati fuori” come è successo agli americani mezzo secolo fa.
Quella di John Kenneth Galbraith (1908-2006), uno degli intellettuali pubblici più in vista del suo tempo, è una tesi dirompente esposta in appena 50 pagine con una lucidità e una forza argomentativa impressionante. È dirompente anche in relazione alla posizione pubblica del suo autore.
John Kenneth Galbraith
Galbraith è stato esponente di spicco del Partito democratico, speechwriter di Lindon Johnson, consulente economico di Roosevelt, Kennedy e Clinton, ambasciatore in India durante l’amministrazione Kennedy, nonché autore di uno studio fondamentale sulla crisi del ’29.
Da molti è considerato l’erede di John Maynard Keynes del quale sviluppò il pensiero in modo critico, inclinandolo verso la sociologia.
Come non ricordare il suo Affluent society del 1958 tradotto nel 1963 da Edizioni di Comunità con il titolo La società opulenta. Molte altre sono le opere che lo resero uno degli intellettuali più popolari insieme a Marcuse della (contro)cultura americana degli anni ’60.
Giusto per dare l’idea della dimensione del personaggio: Galbraith è stato anche uno dei primi pensatori a mettere in discussione il valore del PIL come unità di misura del benessere di una nazione.
In tempi non sospetti mise nero su bianco questa frase profetica:
“Con l’inquinamento, il degrado ambientale, l’insufficiente attenzione per la salute, il rischio di conflitti armati e il relativo costo umano, cioè quando non potremo più respirare l’aria, bere l’acqua e mangiare del cibo non inquinato, forse a quel punto smetteremo di preoccuparci di quanto aumenterà quest’anno il prodotto interno lordo.”
La tesi sul Vietnam
La tesi di Galbraith è semplice e diretta: nel Vietnam gli americani non stavano combattendo contro una ideologia o un sistema, una cultura o il comunismo stesso, ma scontrandosi con un forte sentimento nazionale e con una feroce volontà di autodeterminazione. Ergo: “Siamo impegnati in una guerra che non possiamo vincere e che non dovremmo desiderare di vincere”.
Lo stesso si può dire della guerra di Putin.
Buona lettura.
Una cosa spaventosa
Quella che è chiamata la “presenza americana” [in Vietnam] — le jeep, gli autocarri, i comandi militari, i baraccamenti, le case, gli spacci, gli uomini grandi che vanno in giro con piccole donne — questa presenza è, dovunque arrivi, una cosa spaventosa.
Per contrasto, fa apparire il vecchio colonialismo britannico e francese come un fenomeno dotato di una certa sensibilità.
Così, ripetiamolo, si deve partire da un presupposto logico e inevitabile: noi ci stiamo scontrando non soltanto con i comunisti, ma con un forte sentimento nazionale vietnamita. Se le cose stanno in questi termini, la conclusione che ne segue è dura.
Siamo impegnati in una guerra che non possiamo vincere e che per di più non dovremmo desiderare di vincere.
Poche lezioni in effetti sono scritte con tanta chiarezza dalla storia come l’incapacità delle potenze di affrontare la reazione nazionalista alla dominazione coloniale. L’opposizione può anche essere debole, ma questo ha un valore relativo.
Lezioni scritte con chiarezza
I britannici, pur in possesso del monopolio assoluto in campo militare, non furono più in grado di reggere in India dal momento in cui l’opposizione conquistò i sentimenti patriottici delle popolazioni. Furono buttati fuori da una massa disarmata guidata da un uomo di statura insignificante con uno straccio intorno ai fianchi.
In Africa la loro esperienza, e sempre con il monopolio assoluto in campo militare, fu identica. Lo stesso avvenne alla Francia nell’Africa subsahariana, in Tunisia e in Marocco.
Ditto in Algeria, Congo, Indonesia
In Algeria, nonostante un ampio margine di superiorità dal punto di vista militare e la decisione di considerare il paese come parte della madrepatria, i francesi non fecero un’esperienza diversa.
I belgi non giudicarono saggio restare nel Congo, anche se non più di una ventina dei loro oppositori possedevano l’equivalente di una educazione universitaria e nessuno aveva mai superato il grado di sottotenente.
Gli olandesi non riuscirono a restare in Indonesia anche se si trovavano ad affrontare un popolo che, come abbiamo poi visto, possiede un raro genio per l’anarchia.
Quanto a noi, in una precedente e forse più saggia epoca della nostra storia capimmo che non potevamo resistere davanti al crescente sentimento nazionalistico dei filippini.
Impantanati
Non ci sono molti molti margini di dubbio: i nostri successi militari hanno i limiti che ci si può attendere da quanto abbiamo appena esposto. La nostra tecnologia è enormemente superiore. Il coraggio dei nostri soldati non sembra posto in questione.
Da un anno a questa parte si constata un lieve aumento del numero delle strade e dei villaggi sicuri. Ma la situazione militare rimane, nella sua sostanza, immutata. Il nostro relativo vantaggio in uomini, mezzi e morale non è aumentato.
Siamo impantanati.
Non vogliamo vincere questa guerra
In circostanze consimili i britannici, i francesi, i belgi e gli olandesi scoprirono che una guerra del genere non poteva essere vinta: noi non stiamo facendo un’esperienza migliore.
E come già accadde a loro, noi stiamo scoprendo che un numero crescente di nostri concittadini non desidera vincere questa guerra. Anche noi abbiamo un’opinione pubblica conservatrice che sostiene la necessità di tener duro sul posto. E anche da noi questa opinione sta perdendo sempre più terreno.
È inoltre interessante notare che l’odierno oltranzista americano, al pari del suo antecedente conservatore in altri paesi, accusa chiunque guarda in faccia la realtà di essere antipatriottico, di aiutare il nemico.
Ci copriamo di ridicolo
Oggi sappiamo che non stiamo lottando contro un imperialismo dominato dai sovietici o dai cinesi, ma contro un nazionalismo di origine chiaramente locale guidato dai comunisti o nel quale i comunisti svolgono un ruolo preponderante.
Pertanto l’obiettivo di restaurare l’autorità di Saigon in tutto il paese diventa (e qui scelgo attentamente le parole) assolutamente ridicolo.
La sola conclusione
Si può giungere a una sola conclusione: che per i vietnamiti la “liberazione” è una tragedia totale, mitigata soltanto dalla calma con la quale essi affrontano umiliazioni e sofferenze.
Non è possibile arruolare della gente per farla andare contro i sentimenti nazionali del suo stesso popolo, e la nostra esperienza con l’esercito sudvietnamita ne è una conferma. Perché dovremmo insistere noi a fare quello che un popolo non vuole e il suo esercito non può essere indotto a fare?
Dobbiamo uscirne! Fuori dal Vietnam (Get out of Vietnam).
Prima di andare
Il Vietnam sugli schermi. Pressoché sconfinata la produzione. Prima di tutto la trilogia dell’orrore: Francis Ford Coppola con Apocalypse now, Michael Cimino con Il cacciatore (ambedue a noleggio su Chili, Prime e AppleTV) e Oliver Stone con Platoon (su Prime e AppleTV). Sul dramma dei reduci ancora Oliver Stone con Nato il 4 luglio (a noleggio su Chili, Prime e AppleTV) e Hal Asby con Tornando a casa (in dvd su Amazon). Sulla cultura militaresca c’è il capolavoro di Stanley Kubrick Full Metal Jacket (a noleggio su Chili, Prime e Apple Tv) e avversi alla cultura militaresca il musical di Milos Forman Hair (a noleggio su Prime AppleTV) e Barry Levinson con Good Morning Vietnam (su Disney +). Sempre sul Vietnam e dintorni tre piccoli grandi film di Marguerite Duras: L’amante, Una diga sul Pacifico(entrambi gratis su Prime) e India Song (dvd su Amazon in francese e coreano).
Il più bel film sulla guerra è La sottile linea rossa di Terrence Malick (su Disney TV e a noleggio su Prime, YouTube e AppleTV) con la scena per me più densa di significato: una granata colpisce e fa a brandelli un uccellino che volteggiava lì per caso, senza colpa: la natura annientata da che ci si nutre.
WeWordk/WeCrashed. Disponibili su Apple TV+ i primi 3 episodi di 8 della ministerie We-Crashed, gli altri ogni nuovo venerdì. La serie narra, ispirandosi all’omonimo podcast, l’emblematica storia dell’ascesa e della caduta di Adam Neumann, co-fondatore di WeWork. L’esuberante ed egotista imprenditorie seriale israeliano, che trasferisce nel co-working lo spirito del Kibbutz portando weWork a valere 50 miliardi di dollari, è interpretato da Jared Leto (House of Gucci); la moglie Rebekah, istruttrice di yoga e vegana in totale simbiosi con lui, è i interpretata da una efficace Anne Hathaway che riceverà senz’altro qualche Emmy. Dopo avere visto WeCrashed, se non l’avete già in saccoccia, guardatevi Inventing Anna (su Netflix). Ambedue condividono una morale: se siete bravi nel gioco delle tre carte non mettete un banchetto nella piazza principale del paese, piuttosto mettevi in affari!