Tutto è relativo, anche l’umana giustizia somministrata nei tribunali. Adesso che abbiamo due sentenze parallele di condanna (in primo grado) per il disastroso crac delle vecchie Popolari venete, dovremmo forse dedurne che Gianni Zonin, il «monarca assoluto» di Bpvi, con i suoi 6 anni e 6 mesi di pena, era più colpevole di Vincenzo Consoli, il dominus di Veneto Banca, che di anni, invece, ne ha presi soltanto 4? Oppure dobbiamo prendere atto dell’evidenza che ogni processo fa storia a sé e che, alla resa dei conti, più delle questioni di merito potè il tempo? Quel tempo, per esempio, il cui inesorabile trascorrere ha consentito a Consoli di vedere prescritta l’accusa di aggiotaggio, che invece era rimasta in piedi nel processo, più rapido, celebrato contro Zonin, contribuendo a una condanna maggiormente severa dell’imputato. In entrambi i casi, per altro, la decisione del Tribunale ha considerevolmente ridotto le rispettive richieste di pena avanzate dalla pubblica accusa – 10 anni nel caso di Zonin, 6 anni per Consoli -, tanto che l’avvocato difensore di quest’ultimo, Ermenegildo Costabile, alla lettura della sentenza ha reagito con parole nette: «Una sanzione così bassa ha un significato particolare e potrebbe essere una soluzione di compromesso. Ma non ci appaga».
Questione di punti di vista. Figuriamoci se appaga gli 80 mila soci della Popolare montebellunese, che hanno visto dissipare i loro risparmi investiti in azioni, scriteriatamente valutate dalla banca stessa fino a 39,5 euro ciascuna. Altrettanto si potrebbe dire dei 110 mila che avevano azioni della Bpvi, il cui valore fantasmagorico arrivò a toccare i 62,5 euro. Però, anche per la rabbia dei risparmiatori beffati, il tempo ha steso la sua patina di disillusione: i processi di Vicenza e di Treviso si erano aperti con i picchetti di manifestanti inferociti che reclamavano la restituzione del maltolto, mentre ieri, alla lettura della sentenza contro Consoli, c’erano soltanto giornalisti e avvocati.
Sarà perché nel frattempo molti dei beffati – non tutti i 144 mila direttamente interessati – hanno riportato a casa qualcosa attraverso il Fondo indennizzo risparmiatori (Fir), messo in piedi dallo Stato: gli ultimi dati disponibili riferiscono di 118 mila pratiche finora evase, con il riconoscimento dell’indennizzo fissato nel 30% del prezzo di acquisto dei titoli azzerati e un tetto massimo di centomila euro. A questi si aggiungono altri 4 mila risparmiatori rimborsati, appartenenti alla categoria con redditi e patrimoni superiori. Questi soldi, elargiti dalle casse pubbliche e non certo da coloro che portano la responsabilità del dissesto delle due banche, hanno parzialmente tamponato le ferite di un vasto popolo – i cosiddetti «truffati dalle banche» – che ha patito nel profondo una colossale dissipazione di risorse e di fiducia, in molti casi rimettendoci, oltre ai risparmi, la serenità familiare, la salute psicologica e talvolta anche quella fisica.
Può essere che, un domani, i vertici delle ex Popolari vengano chiamati a rispondere anche del reato di bancarotta, al centro di un ulteriore filone d’inchiesta da parte delle rispettive Procure, che ha il pregio di prescriversi con minore rapidità. Rimane, però, al termine del primo round giudiziario di questa vicenda, una sensazione molto netta. Sensazione per altro confermata anche dal pm di Treviso, Massimo De Bortoli, davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta: al cospetto di un disastro di queste proporzioni, il sistema penale ha le armi gravemente spuntate.
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Ultimo aggiornamento 17/05/2018
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