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I colori di Van Gogh rivivono ad Arles nell’acciaio di Gehry

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Buon fine settimana. Oggi vi parlo di Arles o meglio del Parc des Ateliers, il nuovo complesso artistico della città alle bocche del Rodano. Ma prima ragioniamo di come raggiungere Arles, aspetto che oggi non è affatto secondario.

Mi sono un po’ dilungato, ma voi potete saltabeccare a piacimento. C’è già un nome per questo: si dice “Skimming” una parola che viene dall’industria dell’allevamento.

Muoversi o non muoversi?

Muoversi oggi non è molto consigliabile, eppure quello che è stato costruito ad Arles stimola la sfida. Viaggiare è diventato non solo meno agevole, ma anche eticamente assai problematico. Qualche piccola soddisfazione, però, possiamo ancora levarcela prima che arrivi la cura da cavallo dell’olandese Frans Timmermans.

Prima o poi dovremo farci anche una ragione che il turismo di massa e la sua prolifica industria non potranno più tornare nelle forme della pre-pandemia.

Farhad Manjoo, uno degli editorialisti più brillanti dell’ala liberal del New York Times, in un editoriale del 9 luglio dal titolo “Il pianeta non può gestire i nostri viaggi” (anche in spagnolo), ha elencato le molte ragioni della probabile fine dell’overturism. Si può anche dissentire, ma c’è del fondamento in quello che dice.

Ritorno al ferro

Non è più il dolcemente viaggiare tra le nuvole. Un piacere che dovremo lasciare agli astronauti Jeff Bezos e Sir Richard Branson o al viaggiatore seriale George Clooney.

Alcuni studi ci mostrano che un turista o un visitatore ha un impatto ambientale 70 volte superiore a quello di un residente. Per la miseria, è un numero spaziale.

Inoltre, se l’Europa entro il 2030 vuol ridurre del 55% le emissioni non potrà fare a meno di tassare, come suggerisce compassatamente il “Financial Times”, i voli aerei.

Chissà cosa faranno Easy Jet, Wizz Air e Ryanair. Per ora l’ineffabile Michael O’Leary – capo del vettore irlandese, che voleva i posti in piedi sui suoi aerei – ha ordinato 70 nuovi Boeing. O’Leary è uno dei molti candidati al prossimo venturo “Processo di Norimberga” condotto dalla generazione post-Greta. Anche i collaborazionisti andranno a processo.

C’è sempre il treno, diamine. I russi – dico i russi cui il cambiamento climatico non gliene può importare ‘de meno’ – hanno costruito una nuova colossale linea ferroviaria di 4300 chilometri da Tajšet al Pacifico (la “magistrale” Baikal-Amur) che ricalca a settentrione (in un ambiente molto più ostile) il tracciato della Transiberiana. Costo: 17 miliardi di euro.

Servirà per portare passeggeri e merci dall’Asia all’Europa con risparmi decisivi rispetto al trasporto marittimo dei container via Suez (20 giorni contro 45 e costerà la metà). Ecco la Russia che ci piace.

La Francia che sale in cattedra

Ma è la Francia a dare l’abbrivio. Il governo francese tra il 2020 e il 2030 ha intenzione di investire 75 miliardi di euro (di cui 35 a debito) nelle ferrovie. Ha anche l’idea di vietare i voli aerei per trasferimenti che possono essere fatti in due ore e mezzo su strada ferrata. Si potrebbe salire anche a quattro ore (dico io).

Punterà molto sui treni notturni. Al “memorabile” Paris-Perpignan (parte da Paris Austerlitz alle 22:22), recentemente, si è aggiunto il “Train de nuit” Paris-Nice che pare viaggiare sempre a massima occupazione di posti (SNCF dice di aver venduto questa estate 20mila biglietti per trasferimenti in vagone letto). Forse sarà reintrodotto anche il Parigi-Venezia (operato da Trenitalia) e soppresso nel 2020.

I francesi ci dicono che c’è molta disponibilità del pubblico a viaggiare in treno anche per tragitti lunghi, con pernottamento in wagon-lit, se le tariffe diventeranno accessibili. Adesso sono assurdamente alte (Paris-Perpignan, 187 euro a tratta) e per di più sussidiate dal contribuente.

Quando nel gennaio del 2020 ho accompagnato mio nipote Marco allo sventurato Erasmus all’Università di  Paris-Nanterre, gran parte dei ragazzi che erano con lui avevano raggiunto Parigi in treno e sarebbero rientrati a casa, una volta decretato il lockdown, in treno. Per esempio, Luis veniva da Monaco di Baviera e Johanna da Vienna. Usavano l’app Trainline per trovare le tariffe migliori. Per questi ragazzi di lingua tedesca il viaggio in aereo non era neppure calcolato.

Ad Arles in treno

Con un po’ di buona volontà ad Arles si può arrivare in treno: è a un’ora da Marsiglia, a 4 ore da Nizza e a 9 da Genova. Da Genova si può trovare un biglietto a meno di 50 euro a tratta. Da Torino (più o meno le stesse ore) invece è molto più caro (135 euro a tratta), perché c’è di mezzo il TGV fino a Chambery. Ci sono due o tre cambi, ma a seconda degli orari le attese delle coincidenze sono ragionevoli.

Da Genova si può prenotare un posto finestrino e guardare come cambiano i colori viaggiando da una riviera all’altra. Dopo Nizza si può mettere in cuffia l’Arlésienne di George Bizet che è un ottimo prologo al colore della cittadina dove siamo diretti. Arles ha appena 52 mila abitanti come Gallarate o Anzio.

… anche con la musica in cuffia

Su YouTube si trovano le due famose Suite eseguite ottimamente dall’Orchestra Sinfonica di Stoccolma. I più volenterosi su Spotify possono ascoltare i quattro movimenti di queste musiche di scena composte da Bizet per il dramma di Alphonse Daudet.

Magari al ritorno potete tentare di mettere in cuffia qualche saggio dell’opera molto più sofferta e impegnativa di Francesco Cilea, L’Arlesiana: la Prima del 1897 a Milano fu interpretata da un giovanissimo Enrico Caruso.

Su YouTube trovate un’ampia selezione dell’aria più famosa “Lamento di Federico” nella interpretazione dei grandi tenori. Su Spotify c’è anche una compilation di circa un’ora e mezza dell’Orchestra della Rai di Torino. Se tornate verso Torino questo ascolto è in tono.

Primo viaggio ad Arles

[Potete anche saltare questo e il prossimo paragrafo]

Sono stato due volte a Arles. Una prima volta in treno arrivando da Aix-en-Provence. Era un’estate della fine degli anni ’80 e stavo lavorando a un paper per un master di storia dell’arte medievale. Ero ad Aix per vedere da vicino la tavola dell’Annunciazione, una delle pietre miliari dell’arte tardo-medievale che nella sua primitività rinascimentale mi pareva avere delle affinità con la pittura di Paolo Uccello, sulla quale stava ronzando.

Arrivato in città, però, mi spazientii rapidamente per la calura e soprattutto per l’onnipresenza delle locandine sulla Feria di Arles e il nutrito programma di corride nell’Anfiteatro romano. Non pensavo che anche in Francia si ‘matassero’ ancora i tori. Poi mi hanno detto che nella Camarque c’è un’antica tradizione di sfide con i tori. Esiste anche un gruppo locale di recortadores.

Secondo viaggio ad Arles

Ci sono poi tornato qualche anno più tardi dopo una visita al Moma di New York dove la Notte stellata di Van Gogh e Le lavandaie di Gauguin mi avevano ipnotizzato con le loro cromie emotive e, nel caso di Van Gogh, la stesura della pittura a pennellate furiose. Non trovai molto di tutto questo ad Arles a riprova, se ce ne fosse stato bisogno, che l’immaginario dei due artisti non era certo nutrito dal naturalismo.

Durante il soggiorno di 15 mesi ad Arles (tra il 1888 e il 1889) Van Gogh produsse più di 200 opere tra dipinti e disegni. Un caso unico nella storia dell’arte. Solo nel 2014 Arles ha omaggiato a dovere il pittore olandese come vedremo tra poco.

Forse il recente film di Julian Snabel, Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità (su Prime videoa 3,99 euro) rende meglio l’idea del rapporto, alquanto amaro, tra l’artista e il milieu naturale e umano che raffigurava.

Oggi però c’è un nuovo importante e sbalorditivo tentativo di intrecciare Arles e Van Gogh. Come, però sappiamo, in Francia c’è sempre di mezzo l’exception culturelle française. E per i privati può essere un incubo.

La Francia che si chiude

Sappiamo che lo Stato francese non tollera altri poteri all’infuori di quello pubblico nel campo dell’arte e della cultura. Ed ecco il Centre Pompidou, la Bibliothèque François-Mitterrand e via dicendo. Napoleone ingaggiò una guerra per portare in Francia i tesori della civiltà egizia ed esporli al Louvre. Grazie a questa spedizione si è riusciti a decifrare i geroglifici, anche se la stele che ha consentito tutto ciò è in mano agli inglesi, i nemici giurati di Napoleone.

Il povero Bernard Arnault (povero si fa per dire, recentemente per qualche settimana ha spodestato l’astronauta Jeff Bezos come persona più ricca del mondo) ha avuto la sua Odissea di quasi 15 anni (paragone con Omero postulato dall’ex-ministro della cultura Jack Lang) per costruire la sede della Fondazione Louis Vuitton al Bois de Boulogne a Parigi. Un edificio spettacolare progettato dall’architetto canadese Frank Gehry con una collezione d’arte e spazi espositivi sbalorditivi.

L’arcirivale di Arnault, François Pinault, ha incontrato meno ostacoli nel mettere mano, con un progetto dell’architetto giapponese Tadao Andō, all’edificio della Borsa di Parigi per farne la sede della sua collezione d’arte contemporanea (una delle più importanti del mondo) e un centro espositivo di primaria rilevanza.

Sta di fatto che i due tycoon del lusso dovranno restituire, dopo un cospicuo numero di anni, le loro opere alla città di Parigi e allo Stato francese, a riprova che la Francia e Parigi per prima, come diceva Honoré de Balzac, “non erige altari”.

La Francia che si apre

Arles invece li erige. “Vive la gloire arlésienne, Vive Frank Gehry! Vive Maja Hoffmann!” ha esclamato il sindaco comunista di Arles, Hervé Schiavetti, alla posa della prima pietra del complesso artistico voluto dalla signora Maja Hoffman, erede della fortuna della famiglia che ha fondato la multinazionale farmaceutica svizzera Roche.

In effetti la signora Maja ha incontrato solo qualche superabile difficoltà ad Arles nell’ideare, costruire e pagare di tasca propria uno dei più stupefacenti complessi artistici contemporanei: il Parc des Ateliers, inaugurato il 28 giugno 2021. Il complesso sarà anche sede della Fondazione Luma della famiglia svizzera Hoffman-Roche legata ad Arles e alla Camarque.

Già nel 2014 la Fondazione, avendo ricevuto in comodato d’uso dal comune di Arles per 40 anni l’Hôtel Léautaud de Donines (un edificio del 15° secolo), lo ha trasformato in una moderna galleria d’arte che, in combinazione con il Museo Van Gogh di Amsterdam, espone ciclicamente i lavori di Vincent. Finalmente il tributo che è mancato per più di un secolo!

Non sembra che né la municipalità di Arles, né il dipartimento delle Bocche del Reno, né la regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra, né il governo centrale abbiano posto particolari condizioni alla signora Maja come quelle dettate ad Arnault e Pinault a Parigi.

Sembra anche che nemmeno Frank Gehry abbia dovuto indirizzare alcun dito medio ai suoi detrattori, com’era avvenuto all’inaugurazione della Fondazione Vuitton.

E come avrebbero potuto criticare questo complesso di 11 ettari costruito su un dismesso scalo ferroviario (torna il treno!) nel cuore di Arles: il Parc des Ateliers può fare di Arles la Bilbao dell’Europa post-pandemica.

Ancora lui: Frank Owen Gehry, 92 anni, di Toronto

Per una descrizione accurata del complesso artistico della Fondazione Luma vi reindirizzo al reportage di Roslyn Sulcas pubblicato dal “New York Times”, qui in traduzione italiana.

Guardate anche il servizio fotografico di Iwan Baan.

Mi soffermo brevemente sull’intervento di Gehry, che è il cuore del complesso. È arduo trovare una parola che lo definisca. Cupola? Faro? Fusto di birra? Torre? Pennone di una nave? Cono di gelato? Torta americana? Carciofo?

Le forme di Gehry non sono certo quelle delle figure classiche della geometria solida. Non sono neanche irregolari, sono indefinibili, aggettano, spigolano e colano da ogni parte.

L’edificio progettato da Gehry è una torre di 10 piani ricoperta da 11mila pannelli di acciaio inossidabile risplendenti, flessi e frastagliati così da catturare e riflettere la luce da infinite angolazioni.

La piattaforma rotonda che immette nell’edificio è una palese citazione dell’anfiteatro romano di Arles.

I colori di Van Gogehry

Gehry, dal suo studio in Los Angeles, intervistato telefonicamente dalla giornalista del NYT ha detto che “l’impressione (parola densa) dell’edificio cambia durante il giorno”. Ed ecco che balzano subito alla mente le infinite cromie del Parlamento inglese, nelle diverse ore del giorno, che Monet ha impresso su sei tele. Ma Monet lavorava con tavolozza, Gehry lavora con l’acciaio.

Si vedono i blu scuri e i colori rossastri che sono nei dipinti di van Gogh, e tanti altri man mano che la luce e il tempo cambiano – ha detto Gehry –. Ho sempre pensato che le statue greche in bronzo fossero un’invenzione geniale nel suscitare emozioni con il materiale di cui sono fatte. Creare la bellezza con la durezza che ha ancora l’impronta dell’umano, questo è quello che cerco di ottenere.

All’interno, la struttura di Gehry è quanto di più museale si possa pensare con le sue scale ad elica, i cubici spazi bianchi per le esposizioni, la biblioteca, le aree di ristoro, le viste panoramiche e via dicendo.

Sì, creare il bello con il rigido, questo è proprio il nocciolo del costruire. Gehry l’ha interpretato bene. Ad Arles forse meglio che ovunque.

… e non può mai mancare un film per finire

Un’ultima cosa, un po’ estetizzante, a proposito di architetti e architetture, bellezza e tradimento, passato e presente, creazione e stagnazione. Si tratta di un film di un architetto su un architetto che medita su un altro architetto nella città più architettonica del mondo.

Mi riferisco a Il ventre dell’architetto scritto e diretto da Peter Greeneway nel 1987, con la superlativa fisicità e carnalità di Brian Dennehy.

Il film è praticamente introvabile in italiano. Se abitate o Bologna o nei paraggi potete acquistare il VHS alla storica videoteca Balboni video in via Saragozza, 233/A, vicino all’Arco del Meloncello. Se non siete bolognesi o dei paraggi, la Balboni può spedirvi il VHS del Ventre dell’architetto. Basta scrivere a info@balbonivideo.com oppure telefonare in negozio al numero 051 6141416. Accettano anche PayPal. Avete ancora un videoregistratore? Spero di sì.

Potete anche provare con il prestito della biblioteca più vicina a casa. I cinefili sono ovunque, anche sull’Aconcagua.

Prima di andare

La missione lampo di Jeff Bezos nello Spazio (11 minuti) si è conclusa felicemente. Al rientro, l’ex-capo di Amazon si è fatto fotografare mentre usciva dalla navicella New Shepard, con la tuta del Capitano Lorca in Star Trek: Discovery (su Netflix). Indossava anche un cappello alla Tex Willer. Esattamente come quello sventolato dal maggiore Kong (Slim Pickens) mentre cavalca la bomba nel Dottor Stranamore di Stanley Kubrick (in streaming su Chili a 2,99 euro)

Non sono dei simpatici teneroni questi nuovi Magellano del cosmo?

Post sidolizzato da Tiziano Tanzini che preferisce l’architettura razionalista del Bauhaus.
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