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PROBLEMI AMBIENTALI NELL’ALTO TEVERE E CORRELAZIONI CON IL GRANDE INVASO DI MONTEDOGLIO
UN GRIDO DI ALLARME
Irrazionali interventi selvicolturali, regressione del bosco, danni da esbosco, erosioni, frane, smottamenti, problemi di interrimento dell’invaso, cronica mancanza di manutenzioni e di una linea politica.
Nel grande complesso dei rimboschimenti dell’area Montalone – Modina (Arezzo) gli interventi selvicolturali già realizzati o in atto nelle pinete presumibilmente anche in territorio demaniale non possano non sollevare notevoli perplessità d’ordine tecnico ed ecologico.
In effetti si tratta di diradamenti su popolamenti di Pinus nigra il cui significato selvicolturale non è ben comprensibile, almeno in certe situazioni.
Il Pinus nigra, infatti, in funzione delle sue esigenze ecofisiologiche ben note, si riproduce ovvero rinnova la pineta solo se si trova nel suo optimum fitoclimatico, che è nel piano del faggio (Fagetum) e non altrove pur avendo caratteristiche di frugalità e rusticità. Un esempio indiscutibile è la colonizzazione che il Pinus nigra dei vecchi rimboschimenti sopra il Passo dello Spino oltre mille metri (Fagetum) svolge nelle circostanti praterie: “Natura non facit saltus” “La Natura non fa differenza!”
Storicamente i rimboschimenti della zona Montalone – Modina svolti in più anni anche dai prigionieri austriaci (1915-1918), si basarono sull’uso del Pinus nigra di facile attecchimento su terreni nudi, aridi con roccia talvolta affiorante, con erosioni diffuse conseguenza di un’antropizzazione antica che risale agli Etruschi ed ai Romani, oltre alle devastazioni provocate dalle invasioni barbariche.
Quindi si è sempre trattato di impiegare una specie pioniera rustica e frugale, una specie provvisoria da sostituire nel tempo gradualmente con specie definitive più esigenti, in particolare latifoglie che costituivano gran parte delle primigenie foreste, con interventi mirati togliendo il Pino quando era assicurato lo sviluppo della nuova fitocenosi.
Ciò, purtroppo, non è avvenuto né da parte del Corpo Forestale dello Stato né da parte dell’Azienda di Stato Foreste Demaniali, delle Regioni, Comunità montane, Unione dei Comuni, ecc
Ciò detto attuare diradamenti sui Pini fuori dall’ottimo fitoclimatico in aree quindi dove non c’è e non ci sarà traccia di rinnovamento naturale della specie senza intervenire artificialmente introducendo, ad esempio, latifoglie, è semplicemente deleterio e porta allo scomparso del bosco. L’aumento di luce nell’interno dell’abetina, favorisce poi il rapido sviluppo di vegetazione infestante che tra l’altro aumenta il rischio incendi.
Si ha una regressione del bosco con fatale ritorno ai terreni più o meno cespugliati di un tempo se non si provvede a mettere a dimora appropriate piantine assistite con periodiche sarchiature, diserbi e sostituzione delle fallanze.
Questi problemi, tanti in Italia, non vengono, o non si vogliono far presenti ai politici e si diffondono poi notizie come l’annuncio che la superficie italiana forestale aumenta di 70.000 ha all’anno per le terre abbandonate dall’agricoltura (dimenticandosi dell’enorme superficie di boschi dolosamente incendiati e delle migliaia e migliaia di ha di devastazioni di foreste per causa meteoriche) e che dopo un incendio “il bosco si ricostituisce da solo”! Ma quando?
Non è affatto corretto attribuire significato di bosco a tali superfici sulle quali in tempi lunghissimi e solo in pochi casi la Natura, con una precisa sequenza floristica, ricostituisce il bosco nella sua specifica struttura e giusta definizione.
Concludendo potrebbe anche ravvisarsi per i boschi demaniali nella situazione descritta con la prevedibile regressione del bosco a cespugliati, un deterioramento di patrimonio pubblico.
Infine notevoli sono i danni provocati dall’esbosco dei tronchi con l’apertura di piste a notevole pendenza destinate a divenire torrenti, danni considerati reati ambientali .
Quanto sopra nonostante la Legge Regionale forestale obblighi le ditte che esboscano alla manutenzione delle strade e delle piste ed al loro ripristino al termine dei lavori compreso le aree degli imposti.
Inoltre lasciare per lungo tempo sugli imposti le grandi cataste di legname in attesa del loro utilizzo sul posto o del loro trasporto o destinazione, è pericolosissimo trasformandosi esse in caso di incendio in grandi inestinguibili bracieri le cui non piccole scintille il vento spinge a grandi distanze appiccando nuovi focolai.
Per l’esbosco quindi occorre esigere mezzi più moderni già in uso da molti anni che non causino danni alla vegetazione ed al terreno (vedere allegato).
Sicuro che si vorranno comunque salvaguardare i popolamenti Montalone – Modina (insieme a tutti gli altri nell’Alto Tevere) di notevole plurifunzionalità facendo presente il problema a chi di dovere per ottenere continui necessari finanziamenti considerando altresì che il tutto ricade nel bacino idrografico dell’ invaso di Montedoglio il cui ecosistema è strettamente legato alla funzionalità della foresta, alla manutenzione di abbandonate opere idrauliche, alla riduzione dell’erosione e quindi dell’interrimento precoce del lago, ecc. Tutti pretendono acqua da Montedoglio, dall’area senese al Valdarno, ma nessuno parla della necessità di un fondo annuale indispensabile per realizzare gli interventi con un piano di grande respiro e con revisione quinquennale.
Del resto già a suo tempo, con la realizzazione dell’invaso, si prevedeva anche il miglioramento degli aspetti fondamentali del bacino idrografico compresa la cura del paesaggio, il turismo ecc. con una manutenzione continua di tutta l’area.
Per la storia è utile ricordare che, infatti, contemporaneamente alla diga di Montedoglio fu presa in esame la necessità di un piano decennale di primi interventi e, successivamente, di continua manutenzione relativamente alle varie necessità ambientali del bacino idrografico sotteso dall’invaso. Riassumo i problemi idrogeologi più importanti allora emergenti ma ancora molto attuali.
Nel territorio di Caprese Michelangelo il versante destro del torrente Singerna è caratterizzato da una instabilità diffusa verso valle con modificazioni evidenti dei pendii e dissesto idrogeologico delle pendici e vari cedimenti delle sedi stradali con relative strutture.
Nel comune di Pieve S. Stefano i maggiori e diffusi dissesti sono nei bacini montani dei torrenti Cananeccia, Bulciano, Bulcianella con versanti in movimento che interrompono talvolta la rete scolante principale e secondaria con trasporto finale di materia solida nel fiume Tevere e sconvolgono reti varie, immissario di sinistra del Fiume Tevere, è in grave dissesto idrogeologico che nel suo evolversi ha pericolosi riflessi per le frazioni Mogginano e Ville di Roti.
Sempre a Pieve S. Stefano in sinistra del Tevere, il dissesto comprende estese pendici relative ai bacini dei torrenti Otro con i sottobacini Fosso delle Rubbiee Fosso di Sigliano. Nel versante destro del Tevere è presente l’affluente Sinigiola con versanti del suo bacino, dallo spartiacque (Passo di Viamaggio) fino alla strada comunale di Castelnuovo, che sono in continua instabilità pregiudicando la rete idrografica scolante, infrastrutture e viabilità senza contare la notevole quantità di materia solida trasportata a valle durante le piene ed i periodi piovosi.
Nella parte alta del bacino idrografico del Fiume Tevere è da rivedere e controllare il dinamismo della rete capillare di fossi e torrentelli (Monte Fumaiolo) eventualmente stabilizzando nell’alveo. Particolare cura, nei limiti del possibile, si dovrà avere nella sistemazione delle aree nude a forte pendenza e sensibile erosione di tipo calanchivo.
L’aspetto forestale del bacino idrografico è determinante per l’azione di riduzione della portata solida espletata dalla foresta. Quindi un piano di assestamento rivedibile ogni cinque anni sia per gli ecosistemi naturali che per quelli artificiali (rimboschimenti) per i quali è necessaria la sostituzione delle specie provvisorie pioniere con quelle definitive ove manchi, per motivi ambientali e delle esigenze eco fisiologiche delle specie provvisorie, qualsiasi forma di rinnovazione naturale e quindi di perpetuazione del bosco. Sostituzione che in varie situazioni, avrebbe dovuto essere effettuato nei decenni.
Non sono a conoscenza, infine, dei risultati negli anni 80 della collaborazione da parte della Comunità montana con la Facoltà di Geografia fisica dell’Università di Amsterdam interessata al bacino idrografico sotteso dall’invaso per uno “studio di dettaglio” sulla stabilità e conservazione dei versanti.
Secondo una ricerca della Camera Industria Commercio Agricoltura condotta nel 1984 in collaborazione con il C.F.S. di Arezzo nella Provincia esisteva a quel tempo 8.000 ha di rimboschimenti e n. 5.000 opere idrauliche senza manutenzione.
Non credo che la situazione sia migliorata, anzi peggiorata.
I Consorzi di bonifica in un primo tempo definiti politicamente “inutili” per tutta una serie di motivi, sono stati riesumati e molte perplessità sorgono per la loro attività operando in pianura ovvero sugli “effetti” del dissesto idrogeologico trascurandone l’origine nei 36 bacini montani classificati nella Provincia di Arezzo. Ciò appare incostituzionale poiché anche i residenti in montagna hanno gli stessi diritti di difesa dell’ambiente di quelli di pianura.
Discutibile poi la quota consortile che altro non è che una tassa patrimoniale mascherata facendola peraltro pagare anche ai cittadini nelle città, tassa che la legge sulla bonifica integrale dice che deve essere pagata solo da chi riceve un “beneficio diretto” dai lavori di bonifica. Varie sentenze della Cassazione chiariscono inequivocabilmente che cosa si deve intendere per “beneficio diretto”.
La costruzione della superstrada E45 ha contribuito ad aggravare la situazione idrogeologica poiché il materiale di risulta degli scavi di fondazione e degli sbancamenti fu scaricato lungo l’alveo del fiume Tevere per cui questo materiale con le piene è convogliato a valle con generale e localizzata alterazione del dinamismo fluviale.
Opportuna la realizzazione di una o due briglie, adeguatamente dimensionate, per la trattenuta di detto materiale (filtranti: vedere foto allegata) a monte dell’ abitato di Pieve Santo Stefano per impedire che lo stesso finisca nell’invaso, materiale poi periodicamente da asportare ed impiegare per vari, proficui usi.
Riepilogando, in tale quadro i lavori considerati urgenti dovrebbero essere i seguenti:
- ripristino delle opere idrauliche danneggiate e costruzione di 1 o 2 briglie per la trattenuta di materia solida
- rilevamento della rete idrica idrica e dei profili degli alvei dei principali affluenti del fiume Tevere
- realizzazione di adeguate opere idrauliche capillari ad integrazione di quelle esistenti tese al consolidamento degli alvei ed alla riduzione della portata solida
- censimento delle superfici soggette ad erosioni, smottamenti e frane
- piano di gestione del patrimonio forestale con razionali interventi selvicolturali su base naturalistica compresa la sostituzione delle specie provvisorie con quelle definitive. Il grande vivaio forestale Alto Tevere (ha 12) potrebbe poi sopperire a qualsiasi necessità di piantine. Anzi, ne sarebbe rivitalizzata l’attività notevolmente ridotta, a parte la ricerca, poiché in Italia la superficie annualmente dei rimboschimenti e delle ricostituzioni boschive è irrisoria pur essendoci nell’Appennino 5-6 milioni di ha in pieno dissesto idrogeologico con gravi pericoli a valle. Ma che importa, dopo ogni disgrazia idrogeologica delle popolazioni residenti, basta una passerella di compianto dei politici di turno con improbabili promesse e poi ritorna tutto come prima. Non solo ma, come si è già detto, si diffonde la notizia che in Italia la superficie forestale aumenta ogni anno di 70.000 ettari poiché i terreni abbandonati dall’agricoltura sono considerati boschi e che i boschi i boschi incendiati si ricostituiscono da soli?! E’ evidente che sono notizie politiche per giustificare la mancanza di interventi in montagna, montagna che invece avrebbe la necessità di sostegno, a parte il turismo, di tante possibili economie e della difesa dell’ambiente.
Ciò appare inoltre giustificato dal fatto che ai disagi economici e sociali già sopportati dalle popolazioni residenti per la costruzione della grande opera, non debbano aggiungersi ulteriori fattori negativi che potrebbero ridurre la funzionalità ed i vantaggi di un’opera il cui costo è stato sensibile per la collettività.
Infine, sempre sotto l’aspetto sociale, è da far inoltre rilevare che la continuità degli interventi costituirebbe altrettanto continua necessità di mano d’opera generando notevoli economie indotte.
Io sono un tecnico che negli anni cinquanta e seguenti ha vissuto i sacrifici di centinaia di operai che, acqua, neve, gelo, impegnavano anche 2-3 ore per raggiungere i cantieri di rimboschimento di cui alla Legge n.991/1952 (Legge Fanfani) ed ha anche lavorato come operaio in uno di questi cantieri.
Lavoravamo in mezzo a mille difficoltà ma con un certo entusiasmo e determinazione sperando di investire per un futuro migliore: ma quale futuro?
Solo le amministrazioni comunali, se unite, hanno la possibilità di far conoscere le esigenze effettive del bacino idrografico dell’invaso di Montedoglio per ottenere finanziamenti annuali determinando così un futuro vantaggioso per le nuove generazioni. L’acqua è un bene prezioso e nel nostro caso serve a più collettività ma ha un costo che non può essere ignorato.
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