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Fammi danzare
Il destino appare sovente misterioso e imperscrutabile e spesso si manifesta a poco a poco, lentamente, come le infinite gocce d’acqua che solcano la roccia sotto la fonte, lassù in montagna. E, quando da lì, guardiamo verso valle, il nostro punto d’interesse ci sembra ancora lontano, quasi non ci riguardasse.
Questa è anche la nostra fortuna perché, alla fine, ci fa accettare cambiamenti, anche terribili, che in altri momenti sarebbero stati inaccettabili, quasi folli, anche al solo sfiorarne la possibilità.
Una delle più belle canzoni d’amore di Leonard Choen, “Dance me to the end of love”, prende lo spunto proprio da uno di questi momenti: si ispira all’Olocausto e al fatto che, nei campi di sterminio, alcuni musicisti internati, fossero costretti a suonare mentre i loro compagni venivano gassati e uccisi, aspettando il loro turno:
“Conducimi alla tua bellezza con un violino infuocato/Conducimi oltre il panico finché non sarò al sicuro/Conducimi fin dove finisce l’amore”.
È un inno alla vita e la sua bellezza non è altro che il compimento della vita stessa, lì nell’orrore, quando siamo arrivati a valle dopo essere scesi dalla cima, e il suono, la melodia, diventano l’ultimo passo di un percorso, la dignità di ciò che siamo stati perché non lo siamo più, non lo saremo mai più, perché la dignità ci non ci appartiene più.
«Quella musica, significa la bellezza della conclusione dalla vita, la fine dell’esistenza e dell’elemento passionale in quella conclusione. Ma è lo stesso linguaggio che usiamo per arrenderci al nostro amore, così non è importante che tutti conoscano la genesi della canzone, perché se il linguaggio viene da quell’appassionata risorsa sarà in grado di abbracciare ogni attività appassionata», diceva in una intervista Leonard Choen.
E infatti la canzone è diventata, con un suo cammino, la ballata struggente della bellezza dell’amore, che ci riporta dove là dove siamo stati, che ci riporta finalmente a casa: «Mostrami la tua bellezza non appena i testimoni se ne saranno andati / Fammi sentire il tuo corpo muoversi come fanno a Babilonia / Mostrami poco a poco ciò di cui io solo conosco il limite …. / Fammi danzare fino al matrimonio, fammi danzare continuamente / Fammi danzare con molta dolcezza e fammi danzare ancora a lungo».
Nel video originario e ufficiale scorrono le immagini di coppie giovani e anziane, di sposi e spose, e di persone sole che guardano la foto dei fidanzamenti, sedute a volte su una delle due sedie.
Una danza che penetra nel profondo e lotta, contro ogni evidenza, con l’idea della fine e della morte, e si trasforma in un inno, un cantico alla vita, nell’intimo della relazione d’amore, affinché almeno una volta, l’ultima, sia l’amore che vince la morte: «Fammi danzare verso i bambini che domandano di essere messi al mondo/Fammi danzare attraverso le tende che i nostri baci hanno superato. Innalza una tenda per ripararmi, sebbene ogni filo sia strappato / Fammi danzare fino alla fine dell’amore».
La memoria è una truffa
E in fondo è lo stesso tema, lo stesso concetto, la stessa materia, che emerge dalla bella intervista a Roberto Russo che, da marito e compagno, parla della Vitti, pubblicata sul Corriere. Maria Luisa Ceciarelli, in arte Monica Vitti, nata a Roma nel 1931, è una delle più famose attrici italiane, avendo lavorato con registi come Michelangelo Antonioni, Mario Monicelli, ed essere stata in coppia, nel periodo d’oro della commedia italiana, con Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi,diventando in quel periodo un’autentica e moderna icona.
L’attrice affetta da tempo da una malattia neurodegenerativa che, come tutte quelle di questo gruppo, tendono ad attaccare il sistema nervoso in un processo cronico di morte dei neuroni, e la conseguente involuzione cerebrale, sono uno dei problemi dovuti all’allungamento della vita nelle società avanzate, senza trovare finora rimedi organici.
Sono le paure e le atrocità moderne che hanno sostituito quelle orribili del passato, ma che ne conservano in qualche modo le stesse sofferenze: il passato e la storia si perdono, chi siamo stati, chi abbiamo amato, quali sogni abbiamo avuto, quali speranze ci consolavano, e tutto scompare, banalmente, nelle cessate reazioni chimiche del cervello. Monica diceva che la memoria è una truffa: «è tutto mescolato, la vita, i personaggi. Ma allora è tutto falso, direte voi? No, è tutto vero: specialmente i personaggi».
La foto in apertura emoziona ancora e in qualche modo sopravvive a se stessa e arriva fino a noi, evoca la bellezza della donna amata, di tutte le donne amate, della donna mai incontrata, di certi momenti, di ciò che è stato e ora non è più, e l’illusione e la speranza di trovare ancora la strada e essere salvato. Quella bellezza unica, particolare, mozzafiato, da perderci la testa, rimanda ai passi degli amanti e degli innamorati quando percorrono abbracciati il corridoio che porta all’alcova. Rappresenta simbolicamente tutte le donne e tutti gli uomini, di tutti gli amori, anche quelli che sono nel domani, nel futuro, perché là non moriremo mai.
Quando la malattia prende possesso di noi, dal fondo della valle non vediamo più nulla, tutto è diventato nebbia e si è perso. Eppure, la vita che abbiamo avuto sopravvive nelle persone che abbiamo incrociato nel nostro percorso, e gli abbracci, i baci, i letti, gli sguardi, in qualche modo si conservano fino a che rimane in vita l’altro polo delle tante relazioni che abbiamo intessuto: la canzone di Leonard Choen canta proprio questo. Fino alla fine, finché l’altro ci sarà, ci sarò anch’io. Non dimenticherà. Il video della canzone ci fa vedere e intravedere questo.
Chi siamo stati assume forme carsiche e sgorga in luoghi lontani. In questo caso Anne Carson, raffinata e premiata poetessa, tanto che Harold Bloom l’ha inserita nell’elenco dei suoi poeti prediletti con Petrarca, Blake, Shakespeare, Ashbery, pubblica due poesie (Kant’s Question about Monica Vitti e Ode to the Sublime by Monica Vitti) sulla “London Review of Books” in omaggio all’attrice.
I poemetti si rifanno a due film di Michelangelo Antonioni (L’eclisse e Deserto rosso) evidenziando la figura centrale dell’attrice. Nel 2002, la Carson spiegò la sua Ode in questi termini: “Nella poesia, Monica Vitti ci offre un resoconto del film Deserto rosso di Antonioni, in cui recita come una incarnazione del ‘sublime’. Mi pare chiaro che per preparare il suo ruolo la Vitti abbia letto Edmund Burke, che descrive il sublime come ‘composto dalla coincidenza di dolore, piacere, grazia, deformità, ciascuno legato all’altro, a tal punto che la mente è incapace a definire se esso sia dolore o piacere o terrore’. Probabilmente, la Vitti ha esaminato anche la discussione di Kant intorno alla ‘cosa in sé’, che esiste soltanto nelle nostre menti, e che vibra tra lussuria e frustrazione, “mentre l’immaginazione si protende verso di essa e torna indietro”.
Ode al Sublime di Monica Vitti
“Io voglio ogni cosa./Ogni cosa è nudo pensiero che ferisce./Una sirena nella nebbia che fischia ci fa supporre che la nebbia sia ogni cosa./Uova di quaglia mangiate sulle mani nella nebbia rendono ogni cosa afrodisiaca./Mio marito scrolla le spalle quando lo dico, mio marito scrolla le spalle per ogni cosa./I laghi dove la sua azienda ha avvelenato ogni cosa sono bellissimi come un Bruegel./Conservo il mio negozio perché così posso vendere ogni cosa, anche se è vuoto tengo la luce accesa./Ogni cosa può rovesciarsi./Lo sai che nello spazio più profondo del mare ogni cosa diventa trasparente?, chiede Corrado, l’amico di mio marito/ e io dico Lo sai quanto ho paura?/Ogni cosa vuole attenzione, il mio collo non è rilassato neanche quando bacio Corrado./Kant dice che ‘ogni cosa’ esiste solo nella nostra mente, condotta da un moto di piacere e/dolore che si getta avanti e indietro quando sono sul letto di Corrado e lotto/contro ogni cosa con Corrado che guarda dall’altra parte della stanza e poi viene a letto/e mi monta e questo non fa differenza eccetto il fatto che ora devo combattere contro ogni cosa attraverso/Corrado, che ho reso ‘imperterrito’ (così Kant) sul suo letto gelido nel clangore di mezzanotte.”
Allora, in chiusura, chi siamo stati, quei momenti vissuti sono il perché a poco a poco si accetta la crudeltà e l’orrore (come oggi per le centinaia di morti al giorno di Covid), prima nei campi di concentramento, poi nel chiuso e nel silenzio delle nostre stanze abitate dalla malattia, come tanti imprinting biologici che ci rendono legati per sempre a quei gesti, a quelle parole, a quegli guardi.
Per il compleanno dice il marito «Le preparerò una torta con una candelina simbolica e insieme passeremo una delle tante giornate che abbiamo condiviso. Ci conosciamo da 47 anni, nel 2000 ci siamo sposati in Campidoglio e prima della malattia, le ultime uscite sono state alla prima di Notre Dame de Paris e per il compleanno di Sordi. Ora da quasi 20 anni le sto accanto e voglio smentire che Monica si trovi in una clinica svizzera, come si diceva: lei è sempre stata qui a casa a Roma con una badante, e non è vero che Monica viva isolata, fuori dalla realtà, è la mia presenza che fa la differenza per il dialogo che riesco a stabilire con i suoi occhi». Dance me to the end of love.