Pasqua a casa, in zona rossa, sacrificio di autodisciplina, per aiutarci a superare i giorni bui della pandemia. Resta la consolazione di un buon pranzo, con i familiari più stretti. Ecco alcuni suggerimenti.
Uova e agnello: non mancano mai sulla tavola di Pasqua ma ci sono altri cibi che hanno un risvolto suggestivo e che stiamo dimenticando. Andiamo, alla ricerca di usanze popolari, simboliche, che ancora risultano appetibili, dal brodetto pasquale alla pastiera di grano.
La premessa è che tutte le tradizioni, tutti i significati rituali del cibo di Pasqua, corrispondono al ritorno della vita sulla terra, al rifiorire di quella “bella famiglia d’erbe e di animali”, come diceva un verso celebre. La tradizione cristiana si è innestata, sovrapposta a credenze e richiami più lontani.
Ecco dunque con le uova e con l’agnello dei sacrifici propiziatori (prima che diventasse simbolo del sacrificio più sublime: quello di Cristo sulla croce), una quantità di cibi che assumono anche questi significati propiziatori.
Tenere sorprese
A Pasqua la sorpresa è d’obbligo, al di là di quelle che possiamo mettere o trovare nell’uovo di cioccolato, che diventeranno simpatico ricordo di una festa preparata con amore.
All’uovo spetta il posto d’onore. Sapete perché l’uovo è il cibo primo di Pasqua? Perché non a torto popoli lontanissimi nel tempo, alle origini della civiltà, attribuivano a un gigantesco uovo primordiale l’origine della vita. Ora le uova sono soprattutto di cioccolata (da quando disponiamo della cioccolata, che arrivò in Europa in tempi relativamente recenti, con la scoperta dell’America) e prima si facevano anche di zucchero; e hanno, di solito, dentro la sorpresa: che anche questo è un sottile accorgimento ai significati dell’uovo, nel cui grembo si nasconde il futuro della vita. Stiamo dimenticando invece l’usanza più antica, gentile festosa: di usare comuni uova, colorate in vari colori, destinate soprattutto ai bambini. C’erano zone, un tempo, in cui le uova colorate di Pasqua venivano nascoste addirittura in giardino, sotto cespugli fioriti, perché i bambini al loro risveglio potessero correre con allegria a scovarle e impadronirsene.
Nel menu della tradizione non può mancare la colomba, un dolce nato nel VI secolo d.C. a Pavia.
Si narra, che l’usanza di mettere in tavola l’effige del candido uccello sotto forma di dolce sia nata quando la città lombarda fu l’unica a tentare, inutilmente, di resistere ad Alboino, feroce Re dei Longobardi. Dopo la conquista, costui chiese ai vinti, come tributo di guerra, 12 vergini. Ricevette anche in dono un dolce a forma di colomba, simbolo del rosone della cattedrale, che gli piacque moltissimo. Decretò cosi che da quel momento le colombe dovessero essere protette. Le dodici fanciulle, vedendo in quel gesto un accenno di umanità, dichiararono tutte di chiamarsi Colomba e ottennero la libertà.
Da allora, il dolce è ancora realizzato con diversi componenti a seconda della zona e della fantasia del pasticciere. Indipendentemente da quale ricetta si sceglierà la colomba porterà ugualmente nel piatto il “rametto d’ olivo”, quale messaggio di pace fra Dio e l’uomo che segnava la fine del diluvio universale.
Come tutte le cose, anche le regole sugli accostamenti tra i cibi e i vini sono una guida, una base, non solo degli assoluti. L’Italia vanta centinaia di vini e vignaioli “fuoriclasse”, non ho spazio per citarli tutti.
Uno spumante brut è sempre l’aperitivo ideale, ma si possono scegliere anche vini bianchi tranquilli, cioè senza bollicine, purché siano dei tipi leggeri, freschi come gusto e temperatura.
Antipasti, con ostriche e altri frutti di mare, crudi: qui prediligo certi vino bianchi siciliani come Donnafugata, bianco Etnella, i bianchi delle Tenute Orestiadi, o pure vini che hanno sentito la brezza marina, anche le malvasie secche, i Riesling italico e Renano, Chardonnay e ancora tutti gli spumanti brut.
Altri antipasti con ortaggi, verdure, formaggi anche carni: qui occorrono a mio avviso, vini bianchi ma di un certo impegno, che possono reggere accordi complessi. Così incomincerei dal Soave, Tocai, Sauvignon, Chardonnay, aggiungerei Gewurztramine, Collio e un po’ di tutti gli altri bianchi secchi.
Brodetti zuppe di pesce: anche in questo caso, la gamma dei bianchi può essere molto varia. Se ce dentro in prevalenza pesce azzurro, anche come Grignolino, Rosso del Conero, Rosso Piceno, Morellino di Scanzano e un Chianti giovane delle di una delle sette sottozone: Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colline Pisane, Colli Senesi, Montalbano e Rùfina.
Minestre e zuppe con pasta, riso legumi e ortaggi: proseguire lo stesso vino offerto per gli antipasti.
Risotti e paste asciutte: l’accordo in questi casi va cercato con gli intingoli o almeno con l’ingrediente principale.
Pesce: se si tratta di pesce lesso, ci vogliono vini delicati e leggeri; quindi ancora certe Malvasie secche, Vermentino, Ischia. Se si tratta di pesce fritto o arrostito, torniamo ai bianchi più brillanti come Pinot Grigio, Tocai, Sauvignon, Corvo, Vernaccia di San Gimignano.
Carni bianche lesse o arrostite o in umido: qui tutti i rossi giovani e brillanti hanno titolo; dovrei farne un lungo elenco, cito più che altro come esempio il Barbera di non più di due anni, Merlot, Bardolino, Valpolicella, Sangiovese, Dolcetto, anche certi Chianti giovani “di pronta beva”.
Carni rosse: qui davvero riportare diventa difficile. Siano arrostite o in umido o cucinate in altri modi, qui vanno tutti i vini rossi di un certo corpo, non troppo giovani. Se si è in tempo di selvaggina (ma forse non è tradizione pasquale), “pernici, anatre selvatiche, beccacce e fagiani sono da sempre il cibo nobile che compare sulle tavole più raffinate per soddisfare il gusto dei grandi intenditori”.
Entriamo ora nel regno dei grandi vini: ma anche qui dipende dalle annate, occorre che siano arrivati a maturazione completa. E partiamo dunque con Barolo, Barbera, anche alcuni Nebbioli, con Gattinara, e col maestoso Amarone, con il Nobile di Montepulciano e tutti i grandi Chianti e per ultimo il Re Brunello. Montalcino è un piccolo borgo medievale situato tra le valli dell’Ombrone a nord-ovest, dell’Orcia a sud e dall’Asso ad est. Già il nome descrive un territorio coperto da boschi, olivi e vigneti, un habitat naturale d’eccellenza, l’eleganza delle architetture simmetriche “tra roccaforti e borghi medioevali”.
Formaggi: vengono dopo la selvaggina, per cui si continua a bere gli stessi vini. Altrimenti per formaggi freschi si giocherà sui bianchi, per formaggi a pasta dura, il gusto più forte, si giocherà con i rossi.
Dolci e frutta: a questo punto vanno bene tutti i vini dolci, liquorosi, di cui la nostra Italia è ricca. Ricordo un certo problema: sulla cioccolata non si serve vino; qualsiasi vino prende cattivo sapore. Come si rimedia? Servendo insieme biscotti secchi che “puliscono la bocca” prima di portare il bicchiere alle labbra.
Credo che l’arte di accompagnare vini ai cibi richieda anche qualche attenzione all’arte di servire i vini stessi: se vengono serviti male, si rischia di rovinare tutto.
In primo luogo la bottiglia non va mai maneggiata in modo inappropriato, con scosse nè tantomeno va agitata. Altrimenti può succedere che il vino, specialmente se è stato molti anni in attesa, in una cantina adatta, potrebbe subire un vero choc e guastarsi proprio l’ultimo momento.
In secondo luogo, il vino a contatto con l’aria, quando la bottiglia viene aperta, e più precisamente a contatto con l’ossigeno, si vivifica, riprende vitalità e vigore, è pronto a dare il suo gusto e il suo aroma. Se si tratta di grandi vini rossi, bisogna aprire la bottiglia almeno due o tre ore prima: o addirittura la sera per l’indomani. Se c’è il tempo necessario per aprire la bottiglia e lasciarlo in attesa si ricorre al sistema di travasarlo in caraffa, versandolo piano piano. Per vini rossi meno importanti possono bastare un’ora o due prima; per rosati e bianchi basta anche mezz’ora. Perfino la bottiglia degli spumanti è bene restino qualche minuto in attesa dopo averle stappate, anche perché in questo modo sgassano un po’.
In terzo luogo: prima di servire il vino bisogna controllare che non abbia difetti.
In quarto luogo: le temperature. E’ utile questa scala:
A questo punto sono importanti anche le condizioni ambientali: freddo, caldo, al chiuso, all’aria aperta, possono consigliare variazioni sulle temperature considerate ottimali.
In particolare, il semplice buon senso ci fa capire che se un vino arriva in tavola alla temperatura giusta ma l’ambiente o la stagione sono caldi, ecco che nel tempo di stappare, versare il vino nel bicchiere e portare alla bocca il contenuto, la temperatura del vino risale.
Quindi il consiglio è di portare il vino in tavola un po’ più freddo di quanto è considerato ideale, in modo che arrivi al punto perfetto nell’attesa di bere veramente. Per questo motivo gli spumanti dovrebbero essere serviti nel secchiello, oppure in certi contenitori di bottiglie termo-condizionati che se di buona fattura possono non stonare in mezzo a vasellame elegante.
Buon Pranzo di Buona Pasqua!
Grande Ulderico! Ti si legge, come al solito, con piacere e interesse… E questa volta anche con l’acquolina in bocca!!!
Menu della tradizione Pasquale: l’usanza di mangiare l’agnello durante il pranzo pasquale viene da molto lontano. Il cucciolo della pecora, infatti, bianco simbolo di innocenza, è storicamente legato al concetto di sacrificio. Secondo le Sacre Scritture, la sua morte lava i peccati dal mondo, in ricordo del sacrificio di Gesù, mentre in numerose religioni e riti pagani lo vediamo incarnare il dono più gradito agli dei, che in cambio garantiranno un’annata di messe abbondanti.
Usanze remote della nostra e di altre culture, che hanno in comune il concetto di omaggio, di dolore e di purezza. A finire in tavola, dunque, in rispetto di memorie tanto lontane, non è l’effige dell’animale, come per la colomba ma l’agnello stesso.
E’ sicuramente sbrigativo, e per alcuni, spiacevole, non volevo urtare la sensibilità delle associazioni animaliste, la scelta etica e religiosa non è in discussione, il balzo da fare per passare da queste origini storiche al trionfo del banchetto che porta l’agnello nelle cucine d’Italia, ma questo fa parte della nostra cultura, che si basa su tradizioni rurali e ragioni di sostentamento.
Un’alternativa vegetariana: per chi non mangia carne, infine, vengono in aiuto i pasticcieri, della Sicilia, che preparano l’agnello come dessert: pasta di mandorle farcita con confettura di cedri o cioccolato.
Ne parlano anche lo storico Alessandro Barbero con Paolo Mieli… https://www.youtube.com/watch?v=y0qhJs9luCw