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La laicità, un elemento significativo.
Nel novero delle insidie dell’ideale democratico si colloca anche la negazione della laicità dello Stato. In quest’ottica, uno Stato che nell’articolazione del diritto pubblico si attiene ai dettami di una certa fede religiosa viene considerato, in tutta legittimità, come ente regolatore anche della vita privata dei cittadini.
Da ciò si potrebbe desumere che l’autonomia dell’individuo, il cui riconoscimento costituisce il fulcro della democrazia nella sua forma ideale, non sia conciliabile con un ordine politico di natura sharaitica, come quello iraniano, che nasce con il compito e l’intenzione di indurre i cittadini verso le finalità sublimi.
La creazione degli stereotipi, i ragionamenti che vertono sulla duplicità amico/nemico e le dinamiche di stigmatizzazione e marginalizzazione di coloro che per vari motivi non aderiscono all’etica dominante e, oltretutto, la trasformazione della religione in una seria minaccia al costituzionalismo, vengono considerati come gli inevitabili frutti della non laicità dello Stato.
Come pietra di paragone, si può considerare un’altra replica alla proposta di Huntington. Ronald Dworkin, coltivando la stessa speranza di Khatami, ma muovendo da un’altra impostazione, rintraccia la chiave del conflitto delle civiltà altrove: scardinare i “giudizi di valore personali” nell’ambito internazionale e promuovere il “governo laico […] anche in una comunità in cui la maggioranza dei membri sono religiosi”.
Il principio cardine di tale prospettiva corrisponde al rispetto per le differenze culturali e religiose, da una parte, e all’intenzione di universalizzare i diritti umani, dall’altra. La dignità dell’essere umano, non solo all’interno degli Stati nazionali ma anche a livello internazionale, è riconoscibile solo tramite la laicità dello Stato, così da garantire la pace e maturare un contesto adatto al dialogo. Questa è l’idea centrale dell’ultima opera del pensatore statunitense, intitolata Religion Without God, in cui si discute la dissociazione del sentimento religioso dalla fede in un dio determinato.
Ora è importante verificare come l’enigma della democrazia in un paese come l’Iran, con le sue peculiarità, possa essere decodificabile mettendo in gioco la questione della laicità. A questo scopo, è molto utile tener conto delle statistiche demografiche. Questo paese ospita quasi 70 milioni di abitanti (nel 2008) di cui il 70% sono sotto i 30 anni di età e circa un terzo del totale al di sotto dei 15 anni. Dal punto di vista confessionale, il 99% è di fede musulmana, con un 89% di sciiti.
Nell’arco di due decadi dopo la rivoluzione (1979-1999) si osserva una crescita dell’urbanizzazione pari al 20%, e il tasso di scolarizzazione delle donne dal 28% è giunto al 74%. Gli abitanti di Teheran, dai 4 milioni nel 1976, arrivano a 10 milioni nel 1999. È importante sottolineare, inoltre, che l’inurbamento è l’incremento di scolarizzazione non si sono fermati, ma continuano fino ad oggi. La nuova generazione dei giovani, attraverso le reti di comunicazione, i canali satellitari e Internet (anche se l’utilizzo del satellite è totalmente illegale e l’accesso a migliaia di siti come Facebook, Twitter e YouTube è bloccato) è entrata in contatto con lo stile di vita e i valori morali occidentali.
Ma tali valori sono sottoposti, in genere, a menti non dotate di una forza critica matura, che non ha avuto la possibilità di inquadrare tutte le dimensioni dell’Occidente e le radici culturali che, in ultimo, conducono alla piena sovranità popolare. Questo è stato il contesto che ha accolto, con la maggioranza assoluta, la proposta di Khatami riguardante la democrazia religiosa.
Come si è accennato, durante il governo del presidente riformista dell’Iran, soprattutto nel suo primo mandato, è sorto un vivace tentativo di democratizzare l’orientamento politico del governo sia negli affari esteri che in quelli interni. L’apertura di tante ONG, la nascita di giornali e la pubblicazione di libri che trattavano argomenti prima considerati tabù, le produzioni cinematografiche e teatrali che rientravano in ambiti precedentemente inimmaginabili, la tolleranza notevole verso l’attività di giovani e l’abbigliamento della donna, sono alcuni cambiamenti della società interna.
Sul versante della politica estera, si inaugura un atteggiamento più pacifico, libero da quelle provocazioni che potevano preoccupare i paesi stranieri. Si tende invece ad aprire nuove vie di dialogo, non solamente con l’America e l’Europa, ma anche con l’Arabia Saudita.
Ciononostante le sue iniziative hanno dovuto affrontare alcune difficoltà: le sue “Doppie proposte”, tese verso l’introduzione di piccole ma importanti modifiche della legge elettorale, volte ad ampliare il campo d’azione del Presidente, vengono bloccate dal Consiglio dei Guardiani. I suoi alleati, come ad esempio Mohsen Kadivar, sono stati processati per reati politici e tanti intellettuali di fama, noti per la loro critica al regime, sono scomparsi e trovati morti poco dopo.
Le frustrazioni traboccano, e infine, scoppiano le rivolte studentesche del luglio 1999. Si arrivò alla chiusura di più di venti giornali riformisti nel maggio del 2000. La fine dei due mandati di Khatami coincide anche con la chiusura del Centro internazionale per il dialogo tra le civiltà, e le sue prese di posizione concernente l’11 settembre e l’Olocausto vengono ormai criticate dal fronte integralista. Si abbandona, dunque, il progetto della democrazia religiosa e torna in auge il governo intollerante, la linea dura, che ripristina il blocco dell’accesso femminile a quasi 80 corsi universitari.
Senza ombra di dubbio, nel caso della Repubblica iraniana siamo dinnanzi a un sistema fortemente paternalista che non sospende il giudizio sulla dimensione interiore del cittadino, tanto è che il suo ideatore, diversi anni prima della rivoluzione, dichiarava esplicitamente che “il potere del giurisperito è una questione […] imposta dalla shari’a, poiché […] essa considera uno di noi come un tutore che ha la responsabilità su dei minorenni”.
Chiaramente questo tipo di impostazione non concede spazio alcuno all’autonomia dell’individuo, che viene chiamato “minorenne”. Essendo così fotografato il volto del cittadino, il resto delle aspirazioni verranno di conseguenza. Pertanto non si potevano e non si possono nutrire speranze nel riconoscimento dell’indipendenza della sfera individuale facendo appello alla laicità, come accade in Occidente, quando il default della struttura è già impostato in tal modo. Tuttavia, in un contesto di questo genere si potrebbe inaugurare un processo di democratizzazione diverso, ma possibile in un futuro più vicino, qualora si volessero discutere e revisionare alcuni aspetti teorici della politica iraniana.
Occorrerebbe, anzitutto, prendere atto della distanza semantica di due lemmi, a volte confusi tra di loro: la shari’a e il fiqh. La shari’a viene interpretata nel Corano come “la via” o un “percorso di vita” (5:48), mentre il fiqh è l’elaborazione intellettuale dell’uomo per estrarre da essa la legge civile. Khomeini pretendeva di voler mettere in pratica la shari’a allo scopo di garantire all’uomo il proseguimento della via giusta, ma tale progetto, che sul piano teorico risulta utile alla vita sociale, dimostra le sue problematicità solo quando viene messo in pratica per conseguenza dell’uso improprio delle due categorie appena citate.
Il problema principale dell’ideale sharaitico di Khomeini e dei suoi fautori consiste in una lettura scorretta della gerarchia delle quattro fonti del fiqh sciita. È una banalità, ma viene sempre trascurato il fatto che le prime due fonti da cui la scienza del diritto sciita trae le proprie norme, ovvero il Corano e la Sunna, non hanno nessun valore normativo e indipendenza pragmatica, poiché sono completamente condizionate dall’ijma’ e dalla ragione.
Malgrado il tentativo di Khomeini, teso a evidenziare che le prime due fonti del fiqh “sono di vasta portata e coprono tutti gli aspetti della vita”, su 6219 versetti coranici non se ne possono contare più di seicento dedicati agli aspetti normativi, di cui soltanto ottanta di valenza propriamente giuridica. Anche i versetti ritenuti i più “chiari e univoci” possono essere preferiti agli altri e codificati, o abrogati dal corpus normativo dello Stato, solo ed esclusivamente in seguito a un processo ermeneutico e alla scelta del giurista, e le realtà storiche dell’Iran attestano il fatto che un giurisperita idoneo, al di là dei decreti coranici, potrebbe fornire leggi a seconda del proprio discernimento.
La lapidazione per esempio, senza avere nessun riscontro coranico, continua a esistere nel codice penale dell’Iran; sebbene nessuno dei due riferimenti testuali afferenti all’indumento della donna implichino l’obbligo del velo, la presenza di una donna svelata in pubblico comporta 74 colpi di frusta, la detenzione e il pagamento di una multa; esistono invece quattro versetti coranici concernente le bevande alcoliche, differenti tra di loro, e il loro consumo implica 80 colpi di frusta; l’apostasia non dovrebbe implicare nessuna sanzione punitiva in base al versetto 256 della surra al-Baqara, e ciononostante continua a comportare la pena capitale; e il caso controverso della poligamia è rimasto irrisolto. Con questo si vuole dire che la prima fonte del fiqh sciita, il Corano, non sta veramente alla base del diritto positivo della Repubblica iraniana.
Dal momento che l’ermeneutica coranica permette le più svariate interpretazioni, a volte anche contraddittorie, e che si possono raccontare infiniti episodi della sunna, e considerando inoltre che il principio giuridico ijtihad permette al faqih di dedurre norme necessarie, colmando le eventuali lacune sharaitiche, si può desumere che non è la shari’a stessa a condizionare gli orientamenti giuridico-politici del Paese. Il principio del velayat-efaqih, articolato allo stile khomeinista che concede il diritto assoluto alla Guida suprema, è il frutto di una lettura particolare di un certo versetto coranico (4:59) e degli ahadith. Quindi la presa di coscienza dell’esistenza di una costante dialettica tra una realtà sacra e rivelata (shari’a) e la sua elaborazione umana e in quanto tale criticabile (fiqh) potrebbe essere la strada giusta per agevolare la via del dibattito democratico.
Nel caso dell’Iran le discriminazioni sorgono non tanto perché un fenomeno chiamato islam voleva essere assunto come fonte della Costituzione e del diritto della Repubblica Iraniana, quanto per la mancanza di consapevolezza politica, che non ha permesso di inquadrare le problematiche della dottrina di Khomeini, in particolare quelle sorte dal fatto di aver trascurato il valore della distanza semantica tra le nozioni sopra menzionate.
La sovranità popolare che si è cercato di istituire nell’Iran post-monarchico, nei due momenti principali in cui il popolo è stato richiamato alle urne per i referendum del 1979 e del 1989, è diventata una parodia della presenza popolare che contraddice se stessa.
La democrazia religiosa di Khatami, d’altro canto, era un ideale vago e problematico sul piano teorico. La sua definizione del concetto di libertà, finché ha offerto un fondamento alla responsabilità e all’imputabilità dell’agire umano, emancipando la ragione dal dominio esterno e interno, si è allineata all’idea di autonomia dell’uomo come uno dei pilastri della democrazia ideale, ma quando ci si trova in un dialogo con l’altro per “scoprire la verità e la salvezza finale”, tale incontro farà fatica a non mutarsi in conflitto.
Quello di Khatami era un tentativo sincero, teso al superamento dell’autarchia islamica e dell’occidentofobia, ma quando questo dialogo è già finalizzato a “scoprire la verità”, le incoerenze non possono non emergere. Partire da un sistema di pensiero basato su assiomi vuol dire di per sé il non voler ascoltare l’altro, o perlomeno non volerlo fare del tutto. Anche la definizione della religione come fenomeno a sé stante, sradicato dalla civiltà, richiama il fondamentalismo islamico per il quale, sebbene le società di oggi abbiano totalmente mutato il loro atteggiamento rispetto a Medinat al Nabi, l’islam è rimasto ugualmente funzionante al livello socio-politico.
Nella coppia istituita da democrazia e religione, come è stato sperimentato durante la presidenza di Khatami, i due termini si tradiscono a vicenda, poiché qualunque violazione dei diritti umani e dell’uguaglianza viene ascritta alla religione, e d’altro canto l’esistenza di qualsiasi realtà extrasociale (scientifica, filosofica, religiosa o storica che sia) provoca grossi intralci al dialogo e in questo modo la religione non è più un libero impegno della coscienza, né tantomeno la democrazia riesce a restare fedele ai propri principi.
Anche Khatami era consapevole, a modo suo, della differenza tra l’islam, come realtà a sé stante, e le sue interpretazioni (e già questo è un progresso molto prezioso nel dibattito), ma continuava a insistere sulle potenzialità dell’islam nella gestione della cosa pubblica e sul fatto che la libertà, la democrazia e i diritti umani troverebbero le proprie giuste espressioni nell’islam, dimenticandosi che una libertà e un diritto che non si imperniano sulle cose umane avranno sempre bisogno di “interpreti” del linguaggio di Allah e non di “creatori” di legge. Così le sue iniziative sono state inglobate e annientate dalla figura extralegale della Guida Suprema, che ha il monopolio dell’interpretazione dell’islam.
Nel caso di una società quasi totalmente musulmana come l’Iran, l’intervento della religione nella cosa pubblica sembra inevitabile, poiché l’ottica prevalente (perlomeno in un orizzonte più vicino) stenta a digerire la laicità dello Stato. Nondimeno, le violenze che hanno infranto la pratica dei diritti umani non vanno ascritte tanto alla shari’a, quanto alla sostituzione del titolo e delle prerogative di un semplice dottore della legge islamica con quelli degli imam, che nella visione giafarita sono considerati infallibili, dimenticando che il fiqh è l’ambito dei giudizi ipotetici e temporali, non l’appannaggio di un ente incriticabile dotato del diritto di veto su tutte le deliberazioni dei più minuti organi dell’assetto politico. Le manipolazioni della shari’a non derivano da essa stessa ma dall’ermeneutica giurica del faqih.
Osservazioni conclusive
La settima elezione presidenziale dell’Iran, che si conclude con la vittoria travolgente di Khatami, a causa delle eccessive speranze e delle forti aspettative che solleva, si accosta alla rivolta del 1979 tanto da meritare l’appellativo di seconda rivoluzione.
Questo è stato il momento in cui l’aggettivo omesso dal nome della Repubblica islamica, ovvero “democratica”, viene rintrodotto, poiché gli eventi di due decadi post-rivoluzionarie avevano dimostrato a sufficienza che, malgrado Khomeini e il suo allievo Motahari, il dono elargito da Allah all’umanità non recava con sé la possibilità della costruzione dei diritti moderni del cittadino, e il fatto di coniare strani termini ibridi come mardom-salari (sovranità popolare) e dini (religiosa) era, in effetti, il riconoscimento della svista precedente. I due momenti, nonostante le loro innumerevoli differenze, hanno un punto in comune: ambedue sono tesi verso una nuova interpretazione del potere, in modo da concedere uno spazio maggiore alla presenza del “popolo”.
Alla luce di questa osservazione sono stati scelti, tra i tanti, proprio questi due momenti cruciali del cammino faticoso dell’Iran verso la democrazia, allo scopo di mettere a fuoco il ruolo della laicità e il suo presunto rapporto con la democrazia intesa come modello ideale. Esistono varie definizioni della laicità, a seconda che si voglia proteggere la sfera religiosa o quella civile, oppure stabilire una sorta di indifferenza funzionale tra di loro, ma ciò che le accumuna è che ognuna di queste definizioni mette in rilievo “l’autonomia del diritto dalla sfera religiosa”, la qual cosa coincide con uno dei nodi cruciali della democrazia.
Il fallimento del progetto politico di Khatami è un esempio concreto di quanto qualsiasi tentativo di conciliare la religione e la democrazia, in un sistema come quello iraniano, per quanto onesto nelle intenzioni, sia destinato a contraddirsi e a perire. I “minorenni” a cui è stato negato il libero accesso alle fonti d’informazione (mentre il loro Padre Supremo ha diversi profili su Facebook e le sue prediche vengono regolarmente caricate su YouTube) sono richiamati alle urne ogni volta che bisogna mettere in scena lo spettacolo dell’alta popolarità del regime.
L’Iran continua a essere uno dei dieci paesi più repressivi al mondo in materia di libertà di stampa e di espressione e il progetto democratico di Khatami ha lasciato solo una cocente delusione tra gli studenti e le donne, i quali costituivano il cuore dell’elettorato a lui favorevole.
Sebbene l’élite iraniana attuale, soprattutto quella che vive all’estero, sia pienamente consapevole della situazione, non vi sono tante possibilità di sviluppare un dibatto sulla laicità all’interno del paese, perlomeno non in un futuro prossimo.
Occorre ricordare che non tutti coloro che hanno combattuto contro l’autarchia islamica partono dalle stesse premesse. In Occidente si è sentito dire molto spesso che l’islam, a causa della propria natura, dà poca speranza a chi desidera un cambio di rotta rispetto al paternalismo politico praticato nei paesi islamici.
Tuttavia, alcuni pensatori iraniani non condividono questo punto di vista e offrono varie ragioni in merito. Tra gli argomenti dibattuti, hanno spiccata rilevanza la prospettiva del dottore della legge Mohammad Mojtahed Shabestari, l’autorevole teorico Hasan Yusuf Eshkevari (la cui riflessione è ripresa nell’opera del giornalista dissidente Ali Akbra Ganji), il riformista e filosofo Abdolkarim Soroush (che muove un attacco di significativa risonanza al fiqh tradizionale), il defunto teologo Hossein-Ali Montazeri e innumerevoli intellettuali il cui elenco nuocerebbe all’economia di questo contributo.
Mi importa qui puntualizzare che ognuno di questi teorici condivide alcuni punti del proprio pensiero con gli altri, magari in forme diverse ma in gran parte coincidenti: ridurre l’islam all’ideologia ‒ sia da parte del fronte tradizionale interno che chiede come si possa essere fautori della rivoluzione islamica e studiare Popper, sia da parte dell’Occidente afflitto dall’islamismo ‒ aggrava ugualmente la problematica.
Lo schieramento dei liberal-religiosi, con le sue varie sfumature teoriche, presuppone che legare le sorti della democrazia a una certa religione o retroterra culturale significhi porre il mondo musulmano dinanzi a un aut-aut, annullando qualsiasi mezzo che possa aprirlo alla democrazia. C’è anche chi non si associa a tale corrente, ma nega comunque che vi sia un legame di necessità tra democrazia e laicità.
Senza voler polemizzare sulla validità pratica delle proposte degli intellettuali religiosi, si possono raggruppare le loro fatiche sotto il cappello di una speranza comune, e cioè che in tale contesto – riflettendo sulla distanza tra la legge rivelata shari’a e la sua elaborazione umana fiqh – si possa pervenire a una specie di giuspositivismo islamico, all’interno del quale gli esperti di diritto possano acquisire una consapevolezza maggiore della temporalità e quindi della criticabilità delle proprie elaborazioni normative.
Benché il passo risulti estremamente misurato e lontano da qualsiasi avventurismo finalizzato a un regime change – poiché si è testimoniato che “the cost of a revolution exceed its benefits”– quasi tutti gli oppositori hanno dovuto assaggiare le fruste dell’estremismo dominante: Soroush perde la sua cattedra e, intimidito dalle incessanti minacce dei gruppi di vigilanza Ansar-e-Hizbullah, parte per gli Stati Uniti, Ganji è condannato a dieci anni di reclusione e cinque di esilio in una provincia iraniana, a Montazeri toccano anni di arresti domiciliari, Eshkevari, accusato di aver minato la sicurezza nazionale e di essere un combattente contro Dio, dopo essere stato assolto dall’accusa di apostasia ‒ che, come è stato detto più su, comporta la pena capitale ‒ viene scomunicato e riceve sette anni di prigione.
Il caso dell’Iran è l’esempio di tanti paesi musulmani i cui intellettuali, sin da Abbas Mirza (1789-1833), si sono interrogati sul perché dell’arretratezza politico-culturale della loro patria. Se lo sciismo militante, a seguito della sua ideologizzazione, inaugurata da pensatori come Shari’ati, e a coloro che hanno promosso una certa idiosincrasia nei confronti dell’Occidente coniando neologismi come gharbzadegi (occidentossicazione o occidentosi), è diventato un riparo per le masse frustrate dalle politiche dello Shah, con la fine della fase dinamica della rivoluzione lo stesso sciismo politico ha dovuto fare i conti con la dissidenza degli stessi intellettuali che lo avevano sostenuto.
Dal momento che il sistema basato sul principio del velayat-e faqih, instaurato grazie al consenso popolare, non prevede spazio alcuno per la revoca del consenso, qualsiasi sviluppo nel dibattito della laicità non riesce ad avere la possibilità di andare oltre la fantasticheria dell’élite.
Se il fiqh sciita non trae vantaggio dalle potenzialità dell’ijtihad, che gli consentirebbero di aggiornarsi a seconda delle esigenze del tempo (malgrado abbia la presunzione di essere più evoluto rispetto al fiqh sunnita proprio per l’ijtihad), e di conseguenza le pratiche cadute in disuso continuano a sopravvivere nel codice penale e nel diritto della famiglia, il motivo non va cercato tra i dettami della shari’a.
Il secondo momento rivoluzionario, che qui ho posto in esame, era il frutto dei cambiamenti culturali che avevano svilito il senso di vari provvedimenti giuridico-politici. Il voto espresso a favore di Khatami era, in effetti, la volontà di una nazione di avere un islam democratizzato, il che non è fattibile senza una riformulazione del principio di velayat-e faqih, un ideale finora rimasto inattuato.
Il riformismo perduto e la posta e il gioco.
Ogni analisi tende inevitabilmente a trasformarsi nella discussione su di una grande “occasione mancata” e a porre al centro una sfasatura rilevante. La sostanziale pochezza della politica concreta “nella coppia istituita da democrazia e religione, come è stato sperimentato durante la presidenza di Khatami”. È infatti un contrasto stridente con le riflessioni di notevole respiro che ne avevano accompagnato la nascita, e al tempo stesso con le attese e le aspirazioni che si erano diffuse in una società profondamente trasformata. Una prima ragione del fallimento di quel tentativo riformatore sta indubbiamente nella corposa presenza di resistenze e di opposizioni efficaci: in parte esplicite e dichiarate, in parte più sotterranee e carsiche. Esse accomunano settori ampi del corpo sociale come degli apparati dello stato “Repubblica islamica”, ovvero “democratica”, nascono da interessi consolidati di gruppi e ceti al tempo stesso di culture e orizzonti mentali radicati.
Solo quest’insieme di elementi può spiegare il grande “fallimento” con cui l’esperienza riformatrice ha avvio, e poi l’immediato innesco di controtendenze che rapidamente portano al suo svuotamento: uno sguardo al succedersi delle diverse fasi è più eloquente di ogni argomentazione.