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Iran, antagonista sconosciuto 1/2

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Raccolta di rose damascene in Iran

Pubblichiamo suddiviso in due parti questo interessante articolo che la studiosa della società iraniana Minoo Mirshahvalad (Cfr Chi siamo) ci ha gentilmente inviato. Ci aiuta a capire di più delle peculiarità giuridico-religiose di un mondo che conosciamo poco nella evoluzione degli ultimi decenni e che spesso viene frettolosamente liquidato come il nemico più pericoloso dell’Occidente. Tempo di lettura 6’. Leggibilità **.


Dalla monarchia al repubblicanesimo.

La rivolta del 1979 è un passaggio di notevole rilievo nella storia politica dell’Iran, che in quell’anno muta la sua forma di governo e diventa una Repubblica. Si tratta, per questo Paese, del suo primissimo allontanamento dalla concezione dello Stato retto da un potere personale – basato per di più su principi di legittimazione ereditaria – e di un contemporaneo avvicinamento a una forma politica nuova, teorizzata dall’autore di una dottrina nominata velayat-e faqih (tutela del giurisperito), la quale mira a concedere il potere deliberativo agli esperti della scienza del diritto (fiqh) al fine di garantire maggiore applicabilità al messaggio rivelato (shari’a) attraverso il consenso popolare.

Nasce quindi un modello politico ibrido che riceve la propria legittimità sia dal popolo che dalla shari’a.

Gli anni che anticipano la rivoluzione e quelli che la seguono sono contrassegnati dalla grande importanza data da Khomeini alla partecipazione popolare, ormai considerata come la vera cifra del nuovo repubblicanesimo islamico, che si distingue fortemente dal precedente regime monarchico proprio a partire da questo momento storico.

Di conseguenza, quasi cinque mesi prima del referendum per l’approvazione della nuova costituzione, avvenuto nel 1979, si mette in luce sempre più il fatto che “il criterio è il consenso popolare” e che l’elemento rappresentativo non è stato istituito per fare da contraltare alla deliberazione della millat.  Tuttavia, il leader rivoluzionario ritiene che il potere decisionale del popolo sia determinante fino a quando non viene messa a repentaglio l’integrità della religione e la dignità del regime islamico.

Quest’epocale transizione dalla monarchia alla repubblica, pur ponendo l’accento sull’importanza del suffragio universale, si guarda bene dall’utilizzo pubblico del termine “democrazia”. Il capo carismatico della rivoluzione, nel momento in cui si è dovuto dare un nome al nuovo regime, ha rifiutato l’aggettivo “democratico” proposto dal suo premier Mehdi Bazargan perché l’aggiunta di tale termine all’islam sarebbe stata superflua: questa fede è in sé una portatrice naturale della democrazia e del diritto del cittadino.

Per Khomeini l’accostamento del termine democrazia all’islam poteva implicare il dubbio che esso fosse incapace di riconoscere e applicare i diritti umani. È così che la shari’a (via raccomandata) si veste di un abito pragmatico grazie allo sforzo esegetico del faqih (esperto del diritto islamico) che, in sintonia con le esigenze del momento storico, estrae le norme giuridiche da quattro fonti del fiqh sciita. In tale maniera la dottrina del velayat-e faqih dà luce a una struttura giuridico-politica la cui base teorica non è decisamente il testo coranico (poiché la shari’a è priva di qualsiasi suggerimento riguardante il modello politico adeguato alla gestione dell’umma), ma viene invece costruita grazie al discernimento del valente esperto del fiqh.

Detto altrimenti, ciò che nasce non è un governo di matrice propriamente islamica, ma una Repubblica fondata sull’esegesi del giurisperito, nella quale emerge un organo, il Consiglio dei Guardiani della Costituzione (i cui 12 membri dipendono dalla Guida Suprema), che ha il compito di verificare la conformità delle deliberazioni parlamentari ai due punti fissi del sistema: l’islam e la Costituzione. Il Consiglio, inoltre, ha il compito di verificare l’idoneità delle candidature parlamentari e presidenziali, con il potere costituzionale di invalidare il voto popolare.

Le contraddizioni causate dall’equilibrio instabile tra il potere del popolo e quello degli Ayatollah, dall’indomani della “santa difesa”, hanno di fatto preparato il terreno per il secondo momento rivoluzionario.

Democrazia religiosa

Le già scarse potenzialità liberali del modello repubblicano khomeinista non trovano però occasione di sviluppo, sia a causa di una guerra lunga e devastante con l’Iraq (1980-1988), sia per le politiche di Rafsanjani dirette verso la privatizzazione del mercato (1989-997). La priorità è invece data alla risoluzione delle difficoltà economiche della Repubblica nell’era postbellica.

Il 23 maggio del 1997 l’esponente dell’ala liberale, Khatami, viene eletto Presidente della Repubblica con il 70% dei consensi. Sono le sue proposte democratiche per donne, giovani e iraniani di lingua non persiana a convincere l’elettorato, che gli regala uno schiacciante successo politico. Durante i due mandati di Khatami è stato fatto uno sforzo maggiore per affermare la sovranità del popolo e per coinvolgerlo nelle deliberazioni politiche. A tale scopo sono state introdotte due pratiche innovative, una volta alla politica interna, l’altra tesa verso la politica estera: “la democrazia religiosa” e “il dialogo tra le civiltà”. In questo modo, badando alle esigenze del tempo, si compie un ulteriore sviluppo rispetto al sistema precedente.

Quindi le scarse capacità democratiche del paradigma khomeinista vengono individuate e sviluppate, seppur sotto termini indigeni per prevenire le solite insinuazioni di essere filoccidentali ‒ come è avvenuto nel caso nella Rivoluzione costituzionale. Si diffondono quindi neologismi come jamia-e madani (società civile), qanun-mandi (legalità), kathratghirai (pluralismo) e tanti altri, coniati in parte dallo stesso Khatami e in parte dal ministro della Cultura Mohajerani.

L’atmosfera socio-politica aveva allora alcune caratteristiche peculiari, sia al livello della gestione della politica interna dell’Iran, sia per quanto riguardava la scena internazionale. Khatami doveva affrontare i due problemi maggiori del panorama politico del paese: da una parte l’antimperialismo sciita attivo già dalla fatwa di ayatollah Shirazi con la conseguente ostilità verso l’Occidente ‒ soprattutto dopo lo scandalo del 1953 e la “guerra imposta” in cui si notavano palesemente le mani delle superpotenze ‒ e dall’altra la crescente consapevolezza di una popolazione giovane che, nonostante gli ostacoli posti dallo Stato islamico, era entrata in contatto con alcuni prodotti culturali dell’Occidente. All’estero il nome dell’Iran veniva evocato in seguito ad alcuni episodi che certo non restituivano l’immagine di uno Stato pacifico. Si pensi alla fatwa proclamata da Khomeini contro Salman Rushdie nel 1989, al massacro dei prigionieri politici nell’estate del 1988, agli assassinii a catena perpetrati allo scopo di eliminare l’élite dissidente (1988–99) e all’omicidio del ristorante Mykonos nel 1992.

Khatami, convinto di saper cambiare l’immagine del Paese all’estero, durante la 53a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite tenuta nel settembre 1998 a New York, propose la denominazione dell’anno 2001 come Anno per il Dialogo tra le Civiltà. Come conseguenza di questa proposta, si fondò a Teheran il Centro internazionale per il dialogo tra le civiltà, allo scopo di far convergere le attività di tutti gli organi statali e privati per una migliore resa dell’iniziativa del presidente. Tale idea, non del tutto originale, mirava a confutare le ipotesi di Huntington. L’ex presidente dell’Iran, nell’era dei conflitti tra l’Occidente e l’Oriente, intendeva presentare una forma dell’agire politico che potesse eliminare malintesi e violenze che perturbavano allora la scena internazionale, soprattutto nel contesto mediorientale.

L’intento del filosofo e politico iraniano, volto a ripristinare la fiducia reciproca tra Oriente e Occidente, venne premiato dall’ONU e l’anno 2001 fu infine nominato Anno del dialogo tra le civiltà. Khatami è un conoscitore della filosofia e della civiltà occidentali e, a differenza degli esponenti politici della linea dura, non ha mai sminuito le conquiste scientifiche e culturali dell’Occidente. Nel suo modo di vedere, il “Grande Satana” lascia il posto a un Occidente non interamente da respingere, ma da conoscere e invitare al dialogo. Questo mutamento del tono, dunque, ha dato nuove speranze a chi, a livello internazionale, voleva accogliere un islam moderato e pacifico.

Nonostante l’apertura positiva, il programma presentato da Khatami rivela delle eterogeneità, in particolare quando deve definire alcuni termini chiave della cosiddetta “democrazia religiosa”. In primo luogo, è importante soffermarsi sul significato del dialogo in questo quadro. Il presidente, in una conferenza tenuta in Germania nello stesso anno in cui si consumò la tragedia dell’11 settembre, ha definito il concetto di dialogo come l’atto di “dire e sentire”, come la “ricerca di contatto emotivo e fiducia sincera” per “scoprire la verità e la salvezza finale, capire e coesistere”.

Un altro momento cruciale del suo intervento è la sua definizione di libertà. Nel suo discorso la nozione di libertà assume una nuova connotazione, ovvero non solamente nei termini di libertà dai poteri esterni e dispotici, ma anche come libertà da “vincoli interiori”, “tentazioni” e “desideri”. In altri termini, intende l’autonomia da qualsiasi potere, esterno o interno, che possa condizionare la scelta razionale dell’uomo.

La definizione del ruolo della religione è il terzo momento significativo del suo intervento e permette di osservare una nuova prospettiva di quel progetto politico. In questo quadro l’uomo che non è intenzionato a stringere un rapporto con Dio non potrebbe esistere, poiché “l’uomo per propria natura cerca Dio”. La differenza che vi è tra civiltà e religione viene enfatizzata, sottolineando che le civiltà cambiano, ma le religioni monoteiste sono delle realtà eterne che rimangono inalterate nel corso del tempo e in base a queste fondamenta comuni si presuppone che il dialogo tra i seguaci di varie religioni sia possibile.

Dunque le religioni, ridotte al loro germoglio, vale a dire la ricerca di Dio, vengono concepite separatamente rispetto alle civiltà in cui sono sorte e si sono evolute, assegnando in tal modo un’indipendenza ontologica al fenomeno della religione.

Kathami dedica uno spazio di riflessione anche alla figura dell’intellettuale secolare, a quanto sia lacunosa la sua conoscenza dell’azione sociale. Diverso, a suo avviso, è il clero sciita nell’affrontare l’ingiustizia. La democrazia religiosa non concede il primato politico alle minoranze religiose. Queste, anche se dovessero essere elette dal popolo, non potrebbero mai raggiungere i posti chiave del governo.

Lo Stato islamico viene considerato come un partito che da quando è stato scelto dal popolo (si intende il referendum del 1979) non permetterebbe mai di farsi gestire da un leader che non ne faccia parte. Dunque soltanto un individuo aderente all’islam potrebbe essere il governante della democrazia religiosa.

Le realtà politiche, per le ragioni che vedremo tra poco, dimostrano che i tentativi sopramenzionati di far convergere l’islam e la democrazia incontrano delle difficoltà, sia all’interno del Paese che sul versante della politica estera, e di conseguenza i due enti, democrazia e islam, continuano a rimanere estranei tra di loro, almeno nell’esperienza della Repubblica islamica iraniana. (continua)

L’articolo, completo delle relative note, è pubblicato sul n.2 del 201 volume 12 pp. 7-26 della rivista Jura Gentium.

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1 COMMENT

  1. Molteplici punti di vista e domande differenti si intrecciano immediatamente, come si vede, non appena ci avviciniamo a quel periodo (dalla monarchia al repubblicanesimo), ma sullo sfondo di esse progressivamente si delinea – a me sembra – una questione generale: il significato di quegli anni all’interno di un più lungo processo che attiene al “modo di essere” ma anche al modo di rappresentarsi e di “pensarsi” degli iraniani. Attiene, in altri termini, alla costruzione dell’identità nazionale.

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