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La grande spopolata
Per superficie, la Toscana è una delle più vaste regioni italiane con i suoi quasi 23 mila chilometri quadrati. È invece una delle regioni meno popolate con i suoi 3,7 milioni di abitanti, 162 per kmq contro una media nazionale di 200.
Il paesaggio
Già nell’incontro con la nozione di “paesaggio culturale” il problema della conservazione ambientale assume una specifica connotazione politica; dal mare di lunghe spiagge, ai promontori che si susseguono, dalle isole in lontananza, ai maestrali odorosi, ai tomboli di macchia mediterranea e di pinete, dove il paesaggio marino e quello agreste si fondono.
Poi le distese degli olivi argentei, lo sfumare di colline e di monti, le file ieratiche di cipressi neri che tanto piacquero ai pittori senesi, il disegno dei campi segnati (più un tempo che oggi invero) di “manzi” chianini, bianchi e dalle corna ad arco, e di pagliai come li dipingeva Giovanni Fattori, ma forse soprattutto, il richiamarsi di paesi di pietra e cittadine murate “di monte in monte” (come nel verso di Petrarca) che si aprono su slarghi improvvisi, d’occhio, di mente e di cuore con l’emozione che introduce a straordinarie esperienze.
I toscani, loro, non esistono al più sono una costellazione di sotto denominazioni: pisani, livornesi, lucchesi, chiantigiani, senesi, maremmani, garfagnini, aretini, chianini, fiorentini, pratesi, ognuno con un paesaggio mentale. Il particolarismo, tutto italiano nel bene e nel male, se non viene tutto da qui, vi ha trovato le sue accentuazioni più clamorose.
Non è un caso che si sappia riconoscere a colpo d’occhio un pittore senese da uno fiorentino, un’architettura pisana da una, per quanto simile, pistoiese o lucchese.
San Bernardino da Siena, uno dei maggiori predicatori medievali, si chiedeva “dove sia più dilettevole abitare che in Italia” e pensando alla Toscana, aggiungeva: “se non ci fosse il vizio delle divisioni”.
La storia è passata, ma resta, ed è fortuna che città, cittadine e borghi minori, omogenei e dissimili, ci appaiano come una fiera di individualità.
Nel volto urbano prevale il gusto medievale con le rudi e orgogliose creazioni di consigli comunali, solleciti del decoro pubblico, di mercati ricchi senza sguaiatezza, di gerarchie degli ordini regolari e di capitoli primaziali per i quali la gloria di Dio non era disgiungibile da quelle del luogo. Le trasformazioni del Rinascimento, la rivoluzione toscana, sgorgano dal contesto con naturalezza. Il Manierismo granducale intellettuale ed elegante, il Barocco, dove c’è, e il neoclassico sanno restare nella misura. Con garbo toscano, appunto.
La superbia dell’appartenenza è stata ben alimentata, se Michelangelo diceva che quel poco “ingegno” che si ritrovava lo doveva alla “sottilità” dell’aria natia.
Prendiamo il Chianti: la parola indica un vino famoso, ma anche il territorio che lo produce, insieme ad un olio di eccellenza; siamo di fronte a un paesaggio brusco, boscoso, di bellezza grande ma “naturale”, dove vigneti e uliveti secolari circondano i borghi, dove fierezza e qualità della vita sono diventate leggenda.
Fu espressione di territorio diviso per tutto il Medioevo fra Firenze e Siena, tra guelfi e ghibellini, con scontri terribili, il più famoso dei quali quello Montaperti del 1260, fu talmente cruento che “fece l’Arbia colorata in rosso“, come con orrore poetò il sommo.
Placatasi la tensione nel Rinascimento, il Chianti poté dedicarsi alla sua vera vocazione, quella agricola: il lavoro di generazioni di contadini aveva creato un fitto mosaico di poderi mezzadrili a conduzione famigliare, oggi quasi tutti sostituiti da grandi vigneti e stabilimenti enologici di famose case vinicole. Paesaggi e prodotti hanno attirato un “turismo stanziale”, “verde”, enogastronomico, etico, per la ricerca di prodotti di eccellenza. Di nuovo grandi spazi, pochi abitanti.
Brolio, castello dei Baroni Ricasoli
Se ci spostiamo in un luogo ancora meno frequentato come la Maremma dei leggendari Butteri, l’accetta agganciata alla tipica sella “bardella o scafarda”, cosciali di pelle di capra e cappello a larghe tese, non illudiamoci di ritrovare un mondo che non c’è più. Scomparsa con le paludi, che ancora un secolo fa tra Toscana e Lazio coprivano 65.000 ettari. Scomparsa con le morti per malaria delle centinaia e centinaia di badilanti, che a colpi di pala e di piccone, la bonificarono scavando canali. Quattromila ne impiegò il Granduca Lorenese detto Canapone, per i capelli gialli come la stoppa. I morti per malaria furono oltre 800, il venti percento. Una strage. Si andò avanti con il prosciugamento delle ultime zone fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale.
“Quando questi campi saranno finalmente prosciutti“ disse una volta con retorico trasporto un comiziante che arringava il popolo per le elezioni, “Chissà che merende!” gli rispose dalla folla il solito spiritaccio toscano. Da allora il suo nome fu per tutti quello di onorevole Merenda.
Addio all’allevamento del bestiame allo stato brado e alle greggi svernanti, lungo le tante vie della transumanza chiamate tutte maremmane, dagli Appennini fino alle pianure, addio alle schiere di braccianti stagionali che arrivavano a mietere il grano. Leggete le Veglie di Neri Tanfucio, Anagramma di Renato Fucini scrittore ottocentesco, vi troverete un mondo di povertà e di rassegnazione.
La Maremma è una vasta regione geografica di 5000 kmq che si affaccia sul Mar Tirreno la cui migliore definizione e’ ancora quella di Dante come unicum “da Cecina a Corneto i luoghi colti”. Cecina è in provincia di Livorno, Corneto è il nome medievale di Tarquinia, vicino a Civitavecchia.
E noi ancora con i nostri distinguo: Maremma Grossetana, Maremma Laziale, Maremma Senese, Maremma Livornese, Maremma Pisana. Che, volendo di nuovo spiegare e precisare non spiegano un bel niente.
Il principale corso d’acqua è il fiume Ombrone. Esso esso nasce dai Monti del Chianti presso S. Gusmè. I principali affluenti di destra sono il Torrente Arbia e il Fiume Merse, mentre quelli di sinistra sono il Fiume Orcia e altri minori, come il Torrente Melacce e Torrente Trasubbie.
Cortona perla della Valdichiana
Torniamo nell’interno, nella Val di Chiana, tra Arezzo e Siena. Dall’alto contrafforte su cui si inerpicano le sue antichissime, ripide strade ha assistito, nel corso dei secoli, a incredibili trasformazioni. Ha visto, al tempo degli etruschi, aprirsi alle coltivazioni da grande pianura, che un pigro corso d’acqua , il Tevere, percorre più a Sud.
In età romana, è stata disegnata ai suoi piedi la via Cassia, come principale collegamento tra il Lazio e il medio bacino dell’Arno; nel medioevo, ha subito un progressivo, drammatico impaludarsi, con la scomparsa dei traffici e il regredire della vita civile.
Quindi nel XVI^ secolo, e ancora più incisivamente dalla fine del XVIII^ secolo una lenta, prodigiosa bonifica restituisce la terra all’agricoltura, con colmate, drenaggi e soprattutto con reticoli di canali di bonifica artificiali, con in testa il Canale Maestro della Chiana che, invertendo il corso originario del fiume, sfrutta una lievissima pendenza per portare le acque a Nord, fine ad immetterle nell’Arno.
Oggi la città di Cortona, pur un po’ emarginata rispetto ai grandi tracciati viari e ferroviari che solcano il fondovalle, non appare chiusa tra i suoi insigni ricordi etruschi, medievali e rinascimentali.
Nel territorio di Cortona si producono degli eccellenti vini DOP con menzioni DOC (Cortona, Syrah, Chardonnay, Grechetto, Pinot Bianco, Riesling Italico, Sauvignon, Rosato, Cabernet Sauvignon, Gamay, Merlot, Pinot Nero, Sangiovese). Sono prodotti con uvaggi o in purezza, dall’intenso, bouquet; sono rossi, rosati, bianchi, spumanti Brut Metodo Classico Champenois.
Specialità agroalimentari: grande, bella e candida la Chianina, razza bovina di origini antichissime, è il fiore all’occhiello della cultura gastronomica Toscana.
Questi magnifici bovini vantano una storia millenaria. Reperti storici collocano i primi allevamenti della razza tra Umbria e Toscana già 22 secoli fa, ma le ultime analisi genetiche denotano un origine ancor più antica, probabilmente Turca o Balcanica. Questi animali, secondo alcuni, derivano dal Bos Primigenius (quello raffigurato nei graffiti delle caverne preistoriche), di cui le Chianine attuali conservano ancora tracce dell’antica “groppa”.
Parlano di Chianina poeti Romani come Plinio il Vecchio e Virgilio. La troviamo raffigurata in bronzetti e bassorilievi tra cui quello celebre dell’Arco di Tito nel Foro imperiale. Già in epoca Etrusca la Chianina veniva usata come sacrificio alle divinità e nei cortei trionfali. Ancora oggi la vediamo sfilare sul Sabbione di Santa Croce durante il rinomato corteo del Calcio Storico Fiorentino, gioco simbolo della città.
A Siena nel Palio, il carro che porta il Drappo per il vincitore, è trainato da quattro buoi di razza Chianina. Questa Razza è stata selezionata come razza a triplice attitudine, cioè da riproduzione, da carne e da lavoro nel traino di aratri e carri. Le sue carni, dal sapore inconfondibile hanno la caratteristica di avere nel taglio delle bistecca di lombata e di costola una polpa senza tessuto connettivo. In genere il tessuto connettivo è formato da cellule immerse in un abbondante matrice extracellulare.
Le bistecche di costola si differenziano da quella con il filetto, perché non si trova più l’osso a T, ma le costole senza il filetto. La bistecca alla fiorentina si ottiene dal taglio della lombata di vitellone o di giovenca, dove per giovenca si intende una femmina tra i 14 e i 18 mesi (è la giovane bovina non da riproduzione, che fornisce carne di particolare pregio: carne giovane, ma al tempo stesso sufficientemente matura; carne tenera e succulenta; carne magra e sapida; e via dicendo).
Cotta al “sangue” che sangue non è, ma succhi di cottura che cuocendo alla griglia, a fuoco vivo, restano all’interno della polpa. Gli amanti della carne generalmente vanno matti per le bistecche al “sangue”. Altri invece trovano quella presenza di “sangue” poco appetitosa e optano per una bistecca ben cotta. Eppure nonostante il liquido che trasuda dalla carne rossa sembri davvero sangue, in realtà non lo è e quindi forse quelle sensazioni negative che impediscono ad alcuni di assaggiare la carne al sangue potrebbero cadere. In realtà, si tratta di un mix di acqua e una proteina chiamata mioglobina ed è assolutamente sicuro da mangiare.
Il ruolo della mioglobina è quello di contribuire a trasportare l’ossigeno alle cellule muscolari. Ha un naturale colore rosso granato “melagrana” che porta a credere che sia sangue. Tuttavia, la mioglobina si inscurisce quando viene esposta al calore. Ecco perché la carne ben cotta non ha più un aspetto rosso o al “sangue”, nonostante contenga ancora la proteina.
Potremmo continuare la lista di cibi di grande qualità citando le carni di maiale insaccate di Cinta Senese, del grigio del Casentino, del cinghiale in Maremma, oppure formaggi pecorini delle crete senesi, della Maremma, del Casentino e le ricotte e il formaggio marzolino del Chianti, o il tartufo nelle zone di Volterra e Siena e i funghi dell’Appennino Pistoiese e delle leccete senesi; le castagne e l’Olio di oliva presente in tutta la regione. Per i vini vi rimando a quest’altro mio articolo.
La Vernaccia
Aggiungo una nota speciale alla Vernaccia di San Gimignano, perché mi attira molto l’idea di ricordare che nel Purgatorio, percorrendo la siepe dei golosi, Dante parla di qualcuno che “ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia / del Torso fu, e purga per digiuno / l’anguilla di Bolsena e la Vernaccia”.
Si tratta di Papa Martino IV di Tours (Torso), di cui le cronache avevano riferito la sfrenata voglia di anguille, che faceva venire dal lago di Bolsena (il quale per la verità è Alto Lazio, ma proprio a un passo dalla Toscana), per farle annegare nella Vernaccia, prima di cucinarle.
Non c’era abbastanza per mandarlo all’inferno, ma in purgatorio sì. E poi alla Vernaccia, che non era riferita esplicitamente a San Gimignano, ma non poteva essere altra perché tutto avveniva nell’ambito dei domini tra Roma e Firenze, fece anche accenni convinti Boccaccio, parlando di un fiume che percorreva il paese di Bengodi: fiume, ovviamente, di Vernaccia.
Santa Caterina da Siena la definì addirittura “miracolosa” per gli infermi; quanto al “bottigliere” (cioè cantiniere) del Papa Paolo III, Sante Lancerio, non si stancava di fare ordinazioni, lamentando che a San Gimignano si facessero troppa arte e scienza e non abbastanza vigne.
Ne chiedevano insistentemente Lorenzo il Magnifico, Papi come Leone X e Alessandro VI Borgia, il duca Ercole I di Ferrara e tanti altri.
Nel suo “Bacco in Toscana” il Redi arrivò a condannare ad una buona dose di frustate chi non mostrasse di apprezzare convenientemente la Vernaccia. Intanto nasce tutta da uva che ha lo stesso nome ed è un vino di colore giallo dorato, di sapore asciutto, fresco in bocca, con una piacevole vena amarognola. Esistono Vernacce di San Gimignano in cui si trova il gusto amabile unito all’amaro ed altre secche che sposano bene i piatti di pesce e carne bianca.
Ora è davvero tutto. Buon viaggio e buon appetito!
Articolo scritto con la solita penna scorrevole, vivace e come sempre coinvolgente.
Sempre un piacere leggere i tuoi articoli
Bellissimo
Volevo ringraziarvi per le belle parole che mi avete dedicato.
Siete delle persone davvero gentili.
Grazie
Grande Ulderico!
Descrizione chiara e piacevole, un invito accorato a visitare questa meravigliosa regione gustando i prodotti tipici e ottimi vini
Complimenti…
Complimemti per l armonia che hai nella tua scrittura ma dimmi chi era il “Merenda”?
Caro Paolo,
si dice il peccato e non il peccatore.
Dire il peccatore sarebbe deontologicamente scorretto.
Caro Ulderico, da buon Toscano non posso che essere entusiasta !
Come diceva mia nonna ” il Signore ti benedica “