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Il verde urbano degli altri e il nostro.
Dagli anni ’50 il nostro Paese è stato praticamente travolto da un’esplosione edilizia incontrollata basata, come citava Barbieri nel 1972, su un “arcaico ed esasperato concetto della proprietà privata dei suoli e ispirata alla speculazione edilizia”.
Il risultato è stato la creazione di quartieri iperpopolati che sono l’esatta contrapposizione di quello che dovrebbe essere il vivere civile, privi dei servizi essenziali, di infrastrutture e, per quanto più ci attiene, di aree verdi.
Il cambiamento veloce dall’epoca del boom industriale a una società post-industriale ha lasciato indietro aree dismesse, che sono profonde cicatrici ambientali difficili da rimarginare. Eppure, ci sono esempi virtuosi all’estero di recuperi ambientali diventati poli di attrazione turistica, non solo locale, ma anche internazionale. Pensiamo alla Ruhr, alla High Line e la Domino Sugar Factory a New York, solo per citarne alcuni, che, da siti abbandonati e negletti, sono diventati fra i luoghi maggiormente frequentati del turismo nazionale e internazionale.
In Italia, solo Milano e Torino hanno saputo recuperare aree di dimensioni rilevanti abbandonate dall’industria o sottratte alla folle speculazione per creare aree verdi attrezzate. A Firenze l’unico parco urbano di una certa ampiezza è stato realizzato quasi 150 anni dopo la trasformazione urbanistica del Poggi degli anni intorno al 1865. E la sua realizzazione non è scevra da errori progettuali e da scelta sbagliate riguardo alla componente vegetale.
La lacerazione tra il vecchio e nuovo tessuto sociale, economico e urbanistico è raramente avvenuta con progressiva gradualità; nella maggior parte dei casi, invece, ha determinato, nelle varie situazioni, veri e propri traumi con profonde ripercussioni sulle abitudini, sul pensiero e sulla salute dei singoli, come pure sulle aspettative delle collettività.
L’ homo urbanus
L’Homo urbanus non ha infatti solo distrutto parte del nostro Paese, ma ne ha cambiato i caratteri e, soprattutto, non ha mai tenuto conto del verde nella sua vera veste, cioè quella di tessuto connettivo della città con la quale deve avere uno stretto rapporto per formare le cosiddette infrastrutture verdi dove, insieme alla componente vegetale, convivono la rete stradale, l’edilizia residenziale, i servizi.
È già tardi per correre ai ripari, soprattutto in un paese come il nostro dove il consumo di suolo ha raggiunto livelli ormai non più accettabili e, nonostante gli allarmi lanciati da ISPRA e dai ricercatori che lavorano su argomenti inerenti all’ambiente, continua a crescere in modo significativo, pur segnando un rallentamento negli ultimi anni. Un consumo di suolo che continua a coprire, quindi, ininterrottamente, notte e giorno, aree naturali e agricole con asfalto e cemento, edifici e capannoni, servizi e strade, a causa di nuove infrastrutture, di insediamenti commerciali, produttivi e di servizio e dell’espansione di aree urbane, spesso a bassa densità.
È chiaro che occorre ripensare al modello di urbanizzazione, fermo restando che non si può negare la necessità di creare nuove strutture abitative e insediative in grado di ospitare i 9 miliardi di persone che fra pochi anni abiteranno su questo pianeta. Ma questo può e deve essere fatto cambiando il paradigma di quello che dovrà essere il futuro sviluppo delle città.
Non più con un verde di risulta, fatto all’ultimo momento, con gli scarti dei vivai, pensando solo che gli oneri di urbanizzazione siano una sorta di “capriccio” e un ennesimo balzello da pagare a uno Stato assetato di soldi che, quindi di merita di essere preso in giro piantando ridicoli “pali” vegetali destinati solo a morire.
Allora, in questo contesto di sviluppo e di modifica del tessuto urbano (sensu lato), in cui il “verde” non deve essere considerato un semplice orpello, la sua esatta definizione è fondamentale, poiché molti ancora riferiscono tale termine ad appezzamenti a prato, di più o meno ampia dimensione, sui quali spiccano studiate aiuole o policrome bordure (concezione eminentemente estetica).
La concezione “contemporanea” del verde deve avere invece tutt’altro respiro, riconducibile prevalentemente a due ordini di fattori, seppure in un ambito di manifesta multifunzionalità. Oggi al verde urbano si attribuisce soprattutto finalità di carattere igienico e sociale, strettamente compenetrate e interdipendenti; importanti ambedue, ma delle quali la seconda è probabilmente più determinante.
Tuttavia, per costruire una politica urbana sostenibile inclusiva, dobbiamo tutti svolgere un ruolo attivo di cittadini. Sono le persone che vivono e lavorano nelle nostre città che rappresentano gli attori principali nel renderle più “verdi” scegliendo di utilizzare i mezzi pubblici, adottando come singoli cittadini politiche di riciclo, proteggendo e risorse idriche, e anche conoscendo e promuovendo la creazione di aree verdi. Questi sono solo alcuni dei modi concreti in cui i cittadini possono contribuire a rendere le nostre economie e le nostre città più sostenibili ed efficienti nell’uso delle risorse, così come più attraenti per vivere e lavorare.
Beni comuni o beni del Comune?
Purtroppo, in Italia è ancora difficile distinguere fra bene comune e bene del Comune. Non si può pensare che quando c’è carenza di aree verdi, queste siano necessarie perché un bene comune e poi lamentarsi se queste sono gestite in modo non corretto e pensare che questo sia esclusivamente responsabilità dell’Amministrazione pubblica perché sono un bene del Comune. La semplice apposizione di una preposizione articolata cambia radicalmente il nostro approccio.
Senza poi contare che, in molti, c’è la tendenza all’accettazione passiva di certe cose, una ignavia di fondo nel cittadino che è inaccettabile, siamo sempre pronti ad arrabbiarci quando ci toccano nel privato, ma poco quando, invece, si danneggia un patrimonio comune come gli alberi o altro.
Qui cito un mio concittadino illustre, Dante Alighieri, il quale considerava gli ignavi neanche meritevoli dell’Inferno e li ha collocati nell’Antinferno perché sono coloro che durante la loro vita non hanno mai agito né nel bene né nel male, senza mai osare avere un’idea propria, ma limitandosi ad adeguarsi sempre a quella del più forte.
Io credo che una politica ambientale, una vera e propria pianificazione del territorio e di ciò che esso dovrà essere fra 50 anni che veda nell’aumento delle superfici a verde e della percezione dei valori naturali del paesaggio dovrà prevalere sulla forza degli speculatori che sappiamo essere enorme, ma che non salvaguarda il nostro futuro, ma è interessata solo all’arricchimento di pochi nel presente.
articolo denso di spunti di riflessione utili.
personalmente, non ho una visione ottimistica del futuro del territorio nazionale.
purtroppo, finchè i comuni si devono auto-finanziare con le imposte locali (anche e soprattutto sugli immobili) temo che non avremo cambiamenti epocali nè tantomeno consapevoli e in direzione del recupero e della protezione del patrimonio ambientale. Inoltre, consentitemi di dire che un’altra piaga del nostro paese è che il settore delle costruzioni è in mano alla mafia e alle lobby dei grandi costruttori. le conclusioni le lascio ai lettori.
eppure si potrebbero fare cose meravigliose. a partire dai giardini verticali, dai tetti che possono ospitare arnie e api, fino a trasformare vecchie tangenziali in ciclabili immerse nel verde.
spero che intervenga qualcosa dall’esterno per produrre un cambiamento.