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Ricordi di scuola, di vita e di banche

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Tempo di lettura:4’. Leggibilità ***.

Antonio Billeci, mio insegnante di Ragioneria all’Istituto Tecnico Francesco Crispi di Palermo, era uno di quei professori che si fanno ricordare per la vita. Basso, rotondo, calvo, carnagione e occhi chiari, ma siculo in tutto. Parlava un italiano perfetto e colto, ricorrendo al dialetto in poche circostanze e aveva il vezzo di spiegare e spiegarsi per metafore. Per essere il più chiaro possibile, però, non il più sibillino possibile. In questo non era affatto siciliano. Rispetto alla sua materia coltivava una forma di amore/odio. Desiderò per tutta la vita aver studiato e insegnato filosofia.

Ce lo confessò quando, uomini fatti, lo vedemmo per l’ultima volta. Scoprimmo che aveva scritto diversi libri e articoli di filosofia. Non sull’arida tecnica della partita doppia.

Aveva l’ossessione di formare futuri dirigenti d’azienda, non impiegati precisi, puntuali e soprattutto obbedienti, ma poco attenti a capire che cosa girava intorno a loro. Con voce baritonale, amava prendere le distanze dal mondo, rilasciando giudizi definitivi, che lo facevano assomigliare, nell’immaginario di noi ragazzi, al grillo di Pinocchio. Non era mai pedante, però.

Ricordo che nel corso di un ricevimento di professori ebbe a dire di me ciò che conservo come uno degli apprezzamenti più belli mai ricevuti: “in una classe di orbi, il ragazzo almeno ci vede da un occhio”. Mi beatificò!

Una mattina il mitico Billeci, iniziando la sua ora di lezione, disegnò alla lavagna un grande rubinetto da cui sgorgavano al posto dell’acqua i nomi di conti, sottoconti, voci e registrazioni contabili, e sotto un grande scolapasta che setacciava il tutto.

Ultimato l’enigmatico disegno si rivolse a noi: “Vi presento il Grande Frocione; oggi, ragazzi, parleremo del Conto Economico”. Nel gergo palermitano per “frocione” s’intende proprio la portata di liquido che un rubinetto riesce ad erogare nella sua massima apertura.

Nonostante fossimo già avvezzi alle sue uscite, un’allegra risata accolse il programma del giorno.

Nello specifico, a completamento di quanto fino ad allora studiato voce contabile per voce contabile, il messaggio era che da quell’unico condotto transitavano tutte le componenti economiche negative e positive che fossero, le quali, filtrate con regole ad hoc, generavano un unico elemento: l’utile o la perdita d’esercizio di ogni azienda.

La voce di sintesi che spiegava tutto. La ragione dell’esistenza dell’homo oeconomicus, se cioè il suo esistenziale e materiale affannarsi aveva avuto o non aveva avuto senso. Era in senso hegeliano il modo in cui per Billeci reale e razionale coincidevano, o il suo metterci in guardia da verità assolute, di fronte al relativismo imperante? Ricordatevi, ragionieri di domani, del grande frocione, ma non fidatevene. Scrutate, leggete, interpretate. Ma non credete mai a che cosa vi vuole raccontare. Sarebbe stato un imprinting indelebile nelle nostre menti. Nella mia lo fu.

Di lì a pochi anni ebbi modo di approdare a una grande azienda che corrispondeva ai miei desideri. Vi fui assunto dopo un concorso selettivo. Non era una banca qualsiasi. Era il top. Il sancta sanctorum, l’aristocrazia bancaria italiana. Il regno della perfezione delle regole. E della certezza assoluta del suo costante buon operare. L’apoteosi di ogni aspirante a un posto di lavoro fisso, ben remunerato. Privilegiato.

L’occasionalità del successo derivò dalla mia propensione per la matematica. Le carenze in altre prove (uso delle macchine e cultura generale) furono compensate da quelle attitudini. La soddisfazione fu tale che, sul momento, non me la presi più di tanto per essere assegnato al comparto cassa, uno dei lavori più ripetitivi e manuali che c’erano. Un po’ alla volta crebbe però la frustrazione per quell’impegno, che presto mi sembrò fuori dai tempi.  Non detti buona prova di me, secondo gli standard aziendali. Cosicchè alla verifica della mia prestazione affidata ad un severo corpo di ispettori interni fu associata la lapidaria notazione “elemento su cui non può farsi affidamento”. Ecco dove mi aveva portato la mia capacità di vedere con un occhio solo, come diceva il Billeci.

Ero stato stupido al punto da illudermi di combattere contro i valori del fidelismo gerarchico, delle presunzioni e dei servilismi, in nome della meritocrazia e di nuove idee?

Tralascio il complicato e doloroso excursus che, in forza della determinazione a non rassegnarmi a un lavoro che interpretavo come versione aggiornata della fatica di Sisifo (contare e ricontare biglietti, a mano, inutilmente, senza fine) e accettando di lasciare Palermo, mi fece approdare, quale ultimo incarico, agli uffici cui miravo: corpo ispettivo della vigilanza creditizia centrale. Sarei andato finalmente a incontrare da vicino il grande frocione delle banche, proprio ora che le storiche banche sicule cominciavano a saltare come pop corn sulla padella. Erano gli anni Novanta. Un secolo fa.

Che cosa era nascosto nel loro grande frocione? Volevo correre da Billeci. Professore, aiuto, mi dia una parola di conforto! Trovi un’altra metafora a cui mi possa attaccare. Billeci, come capita agli uomini, non c’era più. Reale e razionale diventavano per me discosti e angoscianti. Fu la mia perdita dell’innocenza. Nel grande frocione scorrevano soltanto grandi falsità. Avevo un osservatorio privilegiato, ma mi sembrava di non avere bussole, mappe, strumenti di navigazione. Almeno non quelli che mi sarei aspettato.

Mi fu assegnata prima ancora che me ne accorgessi la nomea di rompiscatole. Di endemico portatore del virus infettante di ogni organizzazione. Ero infetto e infettavo. Fui assalito da sensi di colpa, di colpe etico-sociali-professionali. Potevo essere di cattivo esempio per i più giovani. Dovevo mettermi in perenne autoisolamento? Mi incartai, coltivai contenziosi, talvolta inutili. Alla fine me ne andai in pensione. Assunsi su di me ogni responsabilità dei miei poco allineati comportamenti. Non avrei trascinato altri nelle mie disavventure aziendali.

Eppure non trovavo la quadra. La partita doppia non quadrava. Il tanto predicato rispetto delle regole, trovava deroghe in ogni interstizio. Ogni caso era a sé, non si trovavano risposte univoche.

Dal grande frocione usciva ancora l’acqua putrida di banchieri che, incontrastati per anni, avevano fatto i loro interessi, per scoprire solo alla fine che avevano mentito su tutto. Nessun segno premonitore dal grande frocione! Muto. Inutile. Dannoso. Solo arzigogolate e finalizzate distorsioni. E nessuno che se ne fosse accorto. Eravamo nel secondo decennio del terzo millennio e nulla era cambiato dal secolo precedente.

Anzi, no. Una novità c’era. Era subito pronta la giustificazione a posteriori. A buoi scappati. Reato: ostacolo all’attività di vigilanza. Informazioni false, ripetute e gigantesche. Esplosive. Nulla da fare. Banche fallite, quattrini sperperati. Processate il grande frocione! E domande inutili, senza risposta: chi controlla il controllore? Nessuno, perché sempre al di sopra di ogni critica.

Mi crollava definitivamente il mito dell’infallibilità della mia istituzione.

Se fosse ancora fra noi il mitico Billeci, alla sua citazione su di me, avrebbe aggiunto  “è rimasto purtroppo fermo a dei vecchi principi etici e morali che non sono mai stati – ancor meno oggi – dei valori aggiunti. Un illuso. Ma nessuno è perfetto!” Sarebbe stato su di me ancora una volta netto e solo minimamente concessivo, secondo la sua chiave di osservazione del mondo. Era pur sempre una questione filosofica, di filosofia morale, anche la mia. Una branca che a lui piaceva, anche perché poco conosciuta in Italia.

 

 

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7 COMMENTS

  1. Questo articolo raccorda, ridimensionandoli e razionalizzandoli in una estrema sintesi, due miei racconti ispirati al Professore. Il secondo dei due pezzi è stato scritto di getto, dopo aver riletto il primo articolo sul mitico Billeci. Il tutto, scremato di particolarità specifiche che riguardano la mia persona, può tornare utile – per tanti che andranno a leggere – e potrà anche essere un’occasione per rivivere proprie esperienze più o meno analoghe e magari rievocare medesime emozioni. I precedenti originali sono postati nel blog che ho creato il giorno dopo essere andato in quiescenza, dedicandomi ad altro.
    A un carissimo amico ancora in servizio, che conosce la mia storia, ho anche scritto ….. rifacendomi al mitico che …… “In fondo quello che resta è l’utile d’esercizio finale” …… che filtriamo attraverso il conto economico della nostra vita! ?

  2. Tema fondamentale la formazione umana e professionale. A che serve ? Lo scrivano Bartleby di Melville mi aiuto’ a convincermi che nulla puo’ scalfire la forza e l’arroganza del potere. Tuttavia, capire il mondo offre una speranza di cambiamento che altrimenti resterebbe nel cassetto. In questo periodo, molti di noi stanno sperimentando da vicino il non sense del potere costituito che non tollera critiche, pena il disfattismo e l’accusa di tradimento. A questo serve ricordare il prof.Billeci, a resistere.Molti anni fa mi istrui all’analisi di bilancio dal Prof. E.Altman che mise a punto lo Zed-score per la Centrale dei Bilanci. Alla fine del corso ci avverti’ che in Italia poteva non funzionare perche’ molti bilanci delle PMI erano notoriamente falsi. Cosi’ imparammo anche a capire dove erano taroccati e poi in seguito capimmo pure cosa erano i bilanci bancari. Tutto inutile ? No, anzi diventammo piu’ bravi del Prof.e dalla nostra innocenza perduta ne derivo’ la nostra salvezza.

  3. Una macchina dotata di motore imballato, di freni capaci solo di inchiodare, e di un sistema di guida o inesistente o arrugginito: è con tale macchina che ha dovuto percorrere una strada accidentata e inoltre provvedere durante la corsa a cambiare o rinnovare gli ingranaggi. Quest’ultimo tentativo “(cambiare o rinnovare gli ingranaggi”) non fu, per la verità, neppure avviato: con effetti drasticamente negativi, non solo per la sua esperienza, ma per la possibilità stessa di avviare interventi da adottare, quale organismo istituzionale della Repubblica Italiana, per modificare e orientare la moneta, il credito e la finanza, al fine di raggiungere obbiettivi prefissati di politica economica-monetaria curando i contatti con istituzioni bancarie e con gli organismi internazionali.

  4. Anch’io sono stato un alunno ( prediletto) del Prof Billeci.Ho avuto la fortuna di avere professori fantastici come Lo Verde italiano e storia, Callari matematica, Croce tecnica bancaria, Mercanti inglese Camarda diritto ed economia, padre Martorana religione .

    Trent’anni dopo il diploma ho organizzato una cena tra compagni e relative consorti ed i professori.Ho avuto l’ onore di prendere a casa il Prof Billeci ( abitava alla fine del corso Vittorio Emanuele) per andare al ristorante.
    È stato un evento eccezionale, commovente.
    Anch’io ho intrapreso la carriera di bancario, e partendo dallo sportello dei c/c ( allora c’è erano le schede ed un centro meccanografico) sono arrivato a direttore di filiale, pur senza mai piegarmi a logiche aziendali da me non condivise e difendendo a spada tratta i miei collaboratori.Ovviamente la mia carriera è stata bloccata, ma sono contento di ciò che ho fatto
    Ormai sono in pensione e recandomi in banca come cliente, mi rendo conto che che le nuove generazioni, di banca sanno poco o nulla.

    • Direi magari: altri tempi. Probabilmente eravamo insieme in quella cena che ricordi. Forse entrambi del corso E ….. con le aule staccate nell’immobile accanto alla scuola principale ….. in una specie di semiscantinato …..

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