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Premessa.
Con riverente rispetto, dedico queste poche righe, alla memoria del Barone Bettino Ricasoli. Statista del Risorgimento, agricoltore, innovatore e promotore di sviluppo. Fondatore della Scuola Superiore di Agraria che, unitamente agli studi universitari, seppero infondermi l’amore e la passione per lo studio dell’Agricoltura. Mi piace anche ricordarlo nei giorni in cui si celebra il 159^ anniversario della proclamazione dello stato unitario avvenuta il 17 marzo 1861.
Storia di vini e d’Italia
Allora ecco la storia: una storia certa nei fatti, forse meno precisa nei tempi. Possiamo farla incominciare, romanticamente, da un Nobiluomo di rigide vedute morali, di fascino personale, che si chiamava Bettino Ricasoli, nato a Firenze il 9 marzo 1809, morto a Brolio (Siena) il 23 ottobre 1880. Uomo timorato di Dio, dedito alla politica e appassionato di studi agronomici e in particolare di viticoltura toscana. Interessi che anche Camillo Benso Conte di Cavour aveva fatto propri nel Piemonte del Barolo e delle risiere. Così i due primi capi di governo dell’Italia unita ebbero in comune lo stesso amore per l’agricoltura, curato con grandissima maestria.
Non era bello, il Barone, essendo visibilmente strabico, ma aveva portamento eretto e contegno fiero da uomo d’armi. Fu capo del Governo del Regno d’Italia per la prima volta dopo la morte per malaria del Conte di Cavour nel 1861-62 e per la seconda nel 1866-67 al tempo di Firenze capitale.
Entrambe le volte rimase in carica per breve tempo in quanto non poteva trattenersi dal litigare con il Re Vittorio Emanuele II, il quale era aristocraticamente ostinato quanto lui.
Un ballo galeotto
Una sera in Firenze, sposato da pochi mesi, Bettino, “detto il barone di ferro” (gli uomini inflessibili non sono amati nel paese dove la flessibilità è stimata più d’ogni altra cosa) condusse la bella e giovane moglie ad un ballo.
La signora fu corteggiata insistentemente da un giovane il quale danzò con lei tutta la sera. Ad un certo punto il Barone, senza dare il minimo segno di irritazione, le disse: “Ora dobbiamo andare, mia cara!”.
L’accompagnò fino alla carrozza in attesa, le sedette accanto e anziché dare indicazione di dirigersi verso la residenza di famiglia, un palazzo lussuoso in via Montebello, ordinò al cocchiere: “A Brolio!”.
Brolio era la sede originaria della famiglia, un castello solitario e tetro, sperduto tra le colline nude e sterili del Chianti, più vicino alla smorta Siena che alla vivace Firenze, ove nessuno dei Ricasoli aveva abitato da secoli.
La coppia viaggiò in silenzio sotto la neve fino all’alba, lui vestito da sera, lei rabbrividendo nell’abito da ballo. Dimorarono a Brolio per il resto della loro esistenza.
Le “pesti” vinicole
Quando non si prendeva cura degli affari di Stato, Bettino, diventato membro della prestigiosa Accademia dei Georgofili, occupava il tempo, compiendo studi ed esperimenti con nuove tecniche agronomiche nel campo della viticoltura e dell’enologia, di cui erano resi partecipi quanti andavano al castello, fra i quali i suoi tanti amici d’Oltralpe. Insomma, il Barone sapeva bene quello che succedeva in Francia, dalla quale non provenivano sempre buone nuove.
Il diciannovesimo secolo fu infatti un periodo molto travagliato per i vigneti. Oìdio, peronospora e fillossera furono le pandemie che produssero distruzioni massive di colture, richiedendo di essere combattute con vere e proprie campagne di fitoiatria.
Possiamo a ragione dire che il Barone Ricasoli visse tutta la sua vita di viticoltore passando da una pestilenza ad un’altra.
Lo oìdio, malattia fungina della foglia, fu sconfitto dopo più di venti anni dal suo primo manifestarsi in America nel 1858, grazie all’impiego di zolfo polverizzato misto ad acqua. La metà dello zolfo prodotto nelle miniere siciliane fu all’epoca, destinato a questo scopo.
La peronospora della vite si diffuse in Francia nel 1878 e in Italia l’anno seguente. Fu combattuta con un miscuglio di rame e di calce, detto poltiglia bordolese, e risulta che ne fu riconosciuta l’efficacia anche a seguito dei test effettuati dal barone Ricasoli nei suoi tenimenti.
La più perniciosa di tutte fu la Fillossera. A partire dal 1830 un afide proveniente dall’America del Nord, attaccò le viti europee, mettendo a rischio la sopravvivenza della stessa viticoltura. Nel 1866, in Francia, come nel resto d’Europa, le viti cominciarono misteriosamente a morire. Le foglie diventavano rosse e cadevano, i grappoli avvizziva e le radici marcivano.
Nel 1867 Jules Emile Planchon, capo del dipartimento di botanica dell’università di Montpellier, fu messo a capo di una commissione di indagine. Le piante colpite dalla malattia non presentavano alcuna causa evidente, neppure a livello microscopico. Planchon ebbe l’idea di studiare le piante apparentemente sane che crescevano a fianco di quelle morte. Fu così che scoprì che le loro radici erano infestate da un piccolo insetto giallastro che ne succhiava la linfa. Diede a questo afide il nome di Rhizaphis vastatrix (afide che devasta le radici della vite), modificato poi in Daktulosphaira vitifoliae (anello delle foglie di vite).
Nonostante le evidenze portate, ci vollero molti anni prima che la comunità scientifica riconoscesse la validità delle conclusioni di Planchon e identificasse la causa della malattia nella azione della fillossera.
Intanto la malattia si diffondeva. Tra il 1875 e il 1889 la produzione di vino francese passò da 83 milioni di ettolitri a meno di 24 milioni. E la pestilenza si diffuse in Spagna, Germania e Italia, con esiti altrettanto disastrosi.
Planchon, nonostante lo scarso sostegno, continuò a indagare per scoprire le origini di questa piaga.
Grazie anche agli studi di altri scienziati, si giunse alla conclusione che questo afide era lo stesso individuato dall’entomologo Asa Fitch nel 1854 sulle foglie di alcune viti americane. Si comprese quindi che il parassita era stato introdotto in Francia con l’importazione di barbatelle americane.
Le viti americane erano immuni all’attacco della fillossera, almeno a livello radicale. La causa del problema conteneva già la soluzione, ovvero l’innesto di ceppi europei su piede di viti americane. In verità ci vollero ancora diversi anni per selezionare le viti americane resistenti e in grado di adattarsi a terreni differenti e ci furono non pochi ostacoli di tipo sociale e politico. I ricercatori italiani ebbero un ruolo rilevante nel selezionare i migliori portainnesti mondiali, che si adattavano ad ogni tipologia di terreno e di vitigno europeo sia a bacche rosse che a bacche bianche.
Un nuovo vino universale
Ma torniamo al Barone Bettino. Se ne andò nel 1880, evitandosi gli anni più distruttivi della Fillossera della vite. Lasciò però le sue sperimentazioni per nuove tecniche di selezione per la ottimizzazione della qualità vinicola, anche se ci vollero alcuni anni per degustare il primo vino prodotto con uve della nuova generazione clonale di vitigni.
Il Barone mise a punto un blend di uve che prevedeva: 7/10 di uve a bacche rosse di cui 90% di Sangiovese e 10% Canaiolo e 3/10 di uve a bacche bianche, 50% di Trebbiano e 50% di Malvasia. Inoltre fu l’ideatore della nuova tecnica di vinificazione “del governo del vino” che conferiva un nuovo bouquet al cru.
Prima di iniziare la vendemmia (dal 10-15 ottobre) faceva passare i suoi vignaiuoli “a fare gli scelti”, che consisteva nel raccogliere i migliori grappoli, senza muffe e al punto giusto di maturazione, delle uve di Sangiovese e Canaiolo. I quali erano poi stesi su graticci di canne, in modo che i grappoli appassissero, concentrando gli zuccheri e mantenendo i fermenti naturali.
Dopo la prima fermentazione a 20-25 giorni dalla vendemmia,veniva eseguita la svinatura. Le uve venivano quindi ammostate “nel bigoncio” e aggiunte alle botti di legno contenenti vino parzialmente fermentato, in percentuale di circa il 5-8%, avendo cura di riscaldare i locali della cantina con bracieri accesi, per far ripartire la fermentazione lenta.
Si sparse la fama di quel Chianti straordinario. La tecnica fu copiata dagli altri proprietari di vigneti della regione. Altre famiglie dell’aristocrazia terriera riscoprirono perdute virtù di produttori, che riunirono alle loro nobili origini. Anche Vittorio Emanuele II, il re, lo chiese e ne divenne amante.
Prevenzione e marketing
L’incontro con quel vino nato poco più di un secolo e mezzo fa dall’artificio geniale del Barone Ricasoli riuscì in un’operazione di marketing straordinaria, con implicazioni economiche e sociali, che hanno avuto un grande peso nel determinare opportunità di sviluppo e di valorizzazione territoriale materiale e immateriale. Il vino diventò, tra l’altro, un’icona dell’emigrazione italiana in America a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Il 14 maggio 1924, 33 produttori della zona fondarono il consorzio chiamato Gallo Nero, con lo scopo di tutelare il vino Chianti e il suo marchio, che tutti oggi conoscono e apprezzano.
Coltivazione della vite nel Chianti. Sullo sfondo il Castello di Brolio.
Insomma il vino Chianti prese vita da una storia di gelosia d’amore e dalla sistematica e decisa reazione alle pesti della vite. E non è che da allora quelle malattie non si siano più ripresentate. Abbiamo imparato a riconoscerle e a prevenirle. Quella lotta vittoriosa fu anche il prodotto di una classe dirigente di grandissima levatura, che trasformò un flagello in opportunità, puntando sulle conoscenze scientifiche e sulla forza di appassionati visionari.
Ogni riferimento a situazioni di attualità è puramente casuale.
Che meraviglia! il conte e la gelosia, il castello e la tenita di famiglia, la filossera l’oidio, gli scelti e il bigoncio e infine il Chianti…. che racchiude nel suo sapore aspro ma amichevole ogni sfumatura della sua storia affascinante. Per un attimo, ma solo per uno, non ho pensato al virus… poi eccolo che e’ spuntato dietro l’ultimo acino! Grazie per questa perla di articolo. Ci voleva.
Gentile Valeria,
ci sono storie così inverosimili che si fa fatica a credere siano successe per davvero. Sono felice che in questa storia ci sono cose, argomenti che l’appassionano.
Grazie per il Suo apprezzamento.
Ulderico
Buongiorno Ulderico,
sono un viticoltore della provincia di Arezzo, alcuni miei amici mi fanno notare che la foto di uve a bacche bianche è verosimilmente Malvasia e non Trebbiano Toscano.
Ci siamo confrontati ma il dubbio persiste.
Grazie in anticipo..
Distinti saluti
Cassi Carlo
Il grappolo è anche acerbo, se lei Carlo, o qualche suo amico, ci invia una foto migliore la sostituiamo con piacere…
Gent.mo Carlo,
è un refuso nella successione delle immagini fotografiche, durante l’impaginazione del testo. Si effettivamente il grappolo in fotografia è Malvasia del Chianti e non Trebbiano Toscano.
Ci scusiamo con i lettori.
Ulderico
Gent.mo Enrico,
in attesa che il lettore gli fornisca una foto di un grappolo più maturo per la sua sostituzione, magari senza aspettare la stagione della vendemmia; cercherò di spiegargli quanto segue: tra i 18 cloni di Malvasia registrati in Italia, compreso la Malvasia del Chianti, come nel nostro caso, hanno queste caratteristiche più marcate di verde. Il verde, infatti, è colore della clorofilla, ma per la Malvasia del Chianti non sta a significare che le uve non sono giunte a maturazione, come per altri cultivar ad esempio il Riesling, il Sauvignon, il Muller Thurgau, il Sylvaner ecc.