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Siamo rimasti molto colpiti nel leggere oggi, domenica di Carnevale 16 febbraio 2020, l’articolo del Corriere della Sera su un argomento complesso e delicato come quello della vendita delle azioni di Bankitalia.
Non si cita nessun comunicato stampa istituzionale, ma la sicurezza con la quale il maggior quotidiano italiano ne disquisisce è inequivocabile.
Con dovizia di particolari informa che la nostra banca centrale ha avviato consultazioni con soggetti finanziari per sistemare i pacchetti azionari di banche che detengono azioni oltre il limite previsto dalla legge.
Salvo errori, fino ad oggi la notizia non è comparsa né sul sito dell’Istituto né è stata anticipata dal Governatore Visco in una sede istituzionale per la comunicazione, come è il FOREX, tenutosi appena otto giorni fa.
Che pensare?
La mancanza di comunicazioni ufficiali su questo intendimento è un fatto molto serio, riguardando una materia che era stata oggetto di una riforma tanto importante, quanto incompiuta. Essa risale infatti al 2014, anno di avvio dell’Unione Bancaria Europea. Da allora troviamo informazioni di base sul sito della Banca che invitiamo a leggere con attenzione, ove interessati.
Ci limitiamo a osservare che, per effetto di vari meccanismi, di natura legale e economica, un’azione ha un valore stabile nel tempo pari a 25.000 euro e ogni partecipante non può possederne più di 9.000, pari al 3 per cento del capitale, pena l’esclusione dal diritto di voto e dall’incasso del dividendo annuale per la parte eccedente il limite.
Il dividendo, sempre per legge, può arrivare al sei per cento del capitale, che essendo pari a 7,5 miliardi di euro, ammonta a un massimo di tutto rispetto di 480 milioni annui.
Seppur inferiore al massimo possibile, la remunerazione è stata in questi anni di tutto rispetto. Ne risulta che l’azione Bankitalia è un asset molto appetibile sotto il profilo sia del rischio (volatilità praticamente assente) sia del rendimento (elevato, al confronto con altri asset risk free, rinvenibili di questi tempi sui mercati finanziari).
L’incompiutezza della riforma nasce proprio dal fatto che la ripartizione del capitale è tuttora contrassegnata da alcuni aspetti peculiari. Tre grandi banche e la prima società di assicurazione italiana posseggono quote in larga misura eccedenti il limite massimo detenibile. Sono presenti tra i partecipanti banche in liquidazione, mentre sono assenti banche importanti a carattere territoriale, come ad esempio le due maggiori capogruppo bancarie del credito cooperativo (e relativi fondi pensione), nate dalla riforma del settore.
Dopo anni, finalmente, si parla di riallocazione delle quote in eccesso, con l’obiettivo auspicabile di rafforzare la presenza di investitori istituzionali come i fondi pensione complementari.
Solo pochi giorni fa Economia&FinanzaVerde aveva sollevato alcune domande, auspicando, in un articolo dedicato al tema, un simile allargamento, che avrebbe portato al definitivo riordino della platea dei partecipanti al capitale della Banca Centrale Italiana, in base ai requisiti voluti dalla legge.
Siamo veramente lusingati che il Corriere abbia ripreso con tanta tempestività il tema.
Se le notizie saranno confermate, la situazione tuttavia non sarà così semplice. Ribadiamo che siamo convinti che i fondi previdenziali privati non dovrebbero farsi sfuggire una tale opportunità, per aiutare a stabilizzare le loro prestazioni nel tempo. D’altro canto il valore delle quote da redistribuire dovrebbe essere prossimo a 4 miliardi di euro, un ammontare su cui investire non certo marginale.
Siamo altrettanto convinti che la delicatezza del tema debba trovare rapide conferme dal più alto livello dell’Istituzione, affinché non diventi fonte di strumentalizzazioni politiche o si presti ad altre interessate polemiche.
Sempre in questi giorni, ad esempio, l’informativa del Corriere si incrocia con l’acquisto da parte della piccola banca popolare dei dipendenti dell’istituto di emissione (CSR – Cassa di Sovvenzioni e Risparmio fra il personale della Banca d’Italia) di 9.000 azioni, pari al massimo detenibile, collocandola nella undicesima posizione dell’elenco dei partecipanti.
Nel vivace periodo di rinnovo delle cariche sociali di detta banca, un volantino del maggior sindacato interno, contrapponendosi alle sigle sindacali che hanno governato la Cassa negli ultimi tre anni, recita che “anche sulla gestione finanziaria non sono mancati elementi meritevoli di forti critiche come ad esempio il recente investimento in quote della Banca d’Italia realizzato al di fuori dei limiti posti dalla normativa”.
L’affermazione, senza precisazioni che consentano di verificarne l’attendibilità, rischia di gettare gratuito discredito.
Una vicenda, dunque, che va accartocciandosi, se consideriamo anche che nella schiera dei fondi pensione partecipanti al capitale è assente il fondo dei dipendenti Bankitalia, che rappresenta gli interessi previdenziali della componente più giovane del personale, dopo la riforma pensionistica del 1993.
Occorre dunque fare chiarezza, tramite una comunicazione ufficiale più sollecita a informare dei progetti di ricollocamento del capitale della banca centrale, il quale, posto ci sia bisogno di ricordarlo, rappresenta un inestimabile patrimonio pubblico.
Lasciare che simili argomenti vengano anticipati da una stampa per quanto qualificata ci rende perplessi nei confronti di chi dovrebbe fare della comunicazione una sorta di messale laico.