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Le anatre beccheranno le stelle? O del disordine idrogeologico nazionale

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Il presidio della Montagna

Nel quadro del desolante quanto preoccupante abbandono della montagna, si inserisce la difesa della città di Firenze sempre più a rischio idraulico e di tutti i centri abitati a valle dei tre sbarramenti, due sul Fiume Arno ed uno sulla Sieve.

Le vicende funeste del fiume Arno sono in gran parte da ricollegarsi alle condizioni ambientali del suo bacino idrografico ovvero al disordine idrogeologico.

Il disordine idrogeologico va affrontato organicamente cercando il più possibile di ridurre l’erosione in montagna e quindi la materia solida trasportata durante le piene che aumenta l’energia cinetica della massa d’acqua, facendo disastri nei tratti a maggiore pendenza dei corsi d’acqua per poi depositarsi quando la velocità diminuisce ovvero nelle zone vallive. La riduzione della sezione degli alvei, e quindi la loro capacità di portata, causa nefaste esondazioniQuesti gli effetti a valle.

La montagna appenninica è da decenni trascurata anche nelle buone intenzioni. Non esiste un presidio selvicolturale ed idraulico come si dovrebbe.

Circa il 50-60% dei boschi sono senza interventi selvicolturali. Soprattutto lo sono i boschi cedui che rappresentano il frutto di vicende economiche e sociali di secoli e secoli. Si tratta di ecosistemi estremamente fragili che bisognano della cura e della manutenzione continua da parte dell’uomo. Altrimenti non si evolvono, ma degradano.

Sistemazioni idraulico-forestali e rimboschimenti

Le sistemazioni idraulico forestali ed i rimboschimenti iniziati dal Real Corpo delle Foreste verso la fine del 1800, intensificati dal 1910 con la legge Luzzatti con cui si creò anche il Demanio forestale dello Stato e si dette dignità a tutti i livelli alla istruzione forestale. Continuarono con la Legge Forestale del 1923, con il R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, poi con la Legge della Montagna nel 1952, con i Piani verdi ed altre Leggi. Oggi sono abbandonati a loro stessi.

Dai 20-24000 ha. rimboschiti annualmente dal Corpo Forestale dello Stato fino agli inizi degli anni 70, cifra comunque modesta rispetto ai 200/ 300.000 ettari necessari di interventi, comprese le ricostituzioni boschive e le decine di migliaia di ha. percorsi da incendi, superfici anche queste dimenticate e in preda all’erosione, al ruscellamento, alle frane, si è passati a cifre irrisorie.

Si calcola che in Italia vi siano 5-6 milioni di ettari a forte dissesto idrogeologico, prevalentemente sull’Appennino.

Migliorano le tecnologie ed i mezzi antincendio, ma gli incendi, quasi tutti dolosi, continuano a provocare ingenti danni ambientali. La domanda sorge spontanea: perché?

Banale disinformazione è poi affermare che i boschi sono aumentati di superficie dato l’abbandono di aree agricole. Non è infatti corretto attribuire significato di “bosco” a tali superfici sulle quali in tempi lunghissimi e solo in pochi casi la natura, con una precisa sequenzialità floristica, ricostituisce il bosco inteso nella sua specifica struttura e giusta definizione.

Sempre più frequente la regressione a cespugliati, come un tempo, dei rimboschimenti invecchiati, per non aver avuto  le indispensabili pratiche tecniche per la perpetuazione del bosco spesso mediante sostituzione con specie definitive: la progressiva rovina delle opere idrauliche, comprese quelle più importanti realizzate dal Genio Civile, i dissesti idrogeologici, il minore assorbimento della CO2, l’alterazione del paesaggio bene economico.

Infine la fusione Arma carabinieri – Corpo forestale, organo preminentemente tecnico dello Stato, non può non suscitare perplessità: alla montagna non serve “ una grande polizia specializzata”, ma servono investimenti, nuove possibili economie, lavoro e difesa dell’ambiente. Assurdamente, con ilarità degli ambienti forestali stranieri, ritroviamo i nuovi Carabinieri forestali ad espletare compiti di polizia stradale o di natura avulsa dalla loro preparazione tecnica e storica.

La montagna chiama, ma non ha più “pazienza” per cui nuove tragedie ecologiche potranno affliggerci: “serba me, essa dice, serbabo te”!

Le casse d’espansione: pregi e difetti

Le casse d’espansione che dovrebbero salvaguardare (ma quando? Forse tra 15 anni) Firenze dalle piene dell’Arno presentano i molti difetti tipici di tali opere o meglio più difetti che vantaggi. Infatti:

sono difficili da individuare e da realizzare
– hanno alti costi e lunghi termini di realizzazione
– producono notevole impatto ambientale per tutti gli ecosistemi circostanti
– spesso derivano da scelte politiche che esulano dal razionale
– creano sedimentazione, ad ogni piena, di limo e di materiale terroso – ghiaioso con molti inquinanti derivati dalle attività agricole e industriali, periodicamente da eliminare con costose operazioni anche per difficoltà di reperimento di siti idonei per la loro ricollocazione.
– alimentano il rapido sviluppo di vegetazione palustre e di specie invadenti sempre annualmente da eliminare, poiché anche ricettacolo di insetti di specie varie, di patogeni, comunque dannosi alle vicine comunità ed all’agricoltura.
Infine, se la capienza delle casse d’espansione non è ben correlata alle portate di massima piena, l’effetto sulla regolazione dei livelli di piena è valido entro certi limiti di piovosità, ovvero della durata delle piogge poiché, una volta riempite, tanta acqua arriva e tanta ne riparte. In tali situazioni l’effetto delle casse è nullo.

Ad esempio, durante l’ultima alluvione in Valdambra (Arezzo, 2016) dove è stata costruita una grande e costosa cassa d’espansione a monte dell’abitato di Ambra, si è verificata a valle della stessa una notevole esondazione come succedeva prima della sua costruzione. Perché tutto questo? E’ evidente che qualcosa non torna.

Il problema delle dighe

Il problema dell’uso e della funzione degli sbarramenti sul Fiume Arno per la produzione di energia elettrica è molto dibattuto. Sostenere che il rialzamento di diversi metri di uno di essi in modo da “laminare” le piene e quindi salvare Firenze è discutibile.

L’uso delle dighe niente ha a vedere con quella che i tecnici chiamano laminazione delle acque ovvero l’attenuazione della piena. Così, finchè l’acqua corre ad una certa portata secondo previsti metri cubi al secondo, questa finisce tutta nelle turbine. Quando la portata dell’Arno aumenta (il che succede sempre d’inverno) i tecnici non possono fare altro che aprire le paratie e far passare l’acqua come non ci fosse la diga per evitare che la piena sovrasti la diga stessa.

“Noi possiamo fare da sentinelle”, dicono gli addetti alle dighe, informando le autorità ogni volta che le portate in transito superano  determinate soglie. Se facessero diversamente, ovvero se gli addetti tenessero le paratie chiuse, il livello del fiume bloccato dallo sbarramento salirebbe in poco tempo, scavalcando facilmente la diga.

Pensare di poter salvare Firenze dall’alluvione attraverso l’azione delle barriere del Valdarno, ed anche sulla Sieve, è ancor oggi un’utopia, come lo era la notte del 3 novembre 1996 quando la portata del fiume, normalmente 50/70 mc/sec., raggiunse il livello spaventoso di 2250 mc/sec (per capirci il 6 novembre 2016 la punta massima è stata di 1000 metri cubi).

Per la diga di Levane c’è già un progetto di massima realizzato dall’Enel per alzarla di 5 metri, mentre per la Penna (meno male! N.d.r.) l’innalzamento è impossibile, pena l’inondazione di Ponte Buriano ovvero dell’area storica che fa da sfondo alla Gioconda di Leonardo.

Ammesso poi che termini il reperimento di vaste aree per casse d’espansione, ci vorrebbero almeno 10-15 anni per utilizzarle. Da considerare poi che in presenza di intense e durature tempeste di pioggia, si riempirebbero sia la diga rialzata sia le casse d’espansione e quindi il loro effetto si annullerebbe totalmente.

Gli ambientalisti “tagliano la testa al toro” affermando che tutti i pericoli di esondazione sicuramente si annullerebbero vuotando gli invasi da utilizzare, ecco il punto, solo come casse di espansione in occasione di emergenze.

Dicono che dietro il rialzamento della diga di Levane “sbandierato” come salvezza di Firenze, ci sarebbero interessi di ben altra natura. Conviene ancora favorire questi presunti interessi stimando che sono superiori ai valori storici, artistici, culturali, economici di Firenze e di tutti gli altri insediamenti urbani lungo il corso del fiume, Pisa compresa, nonché alla salvaguardia della vita di una moltitudine di persone? Sicuramente NO è la loro logica conclusione.

L’insidia dei terremoti

Senza fare allarmismi c’è un altro pericolo che dovrebbe essere preso in seria considerazione e cioè quello di un forte terremoto non certamente prevedibile, ma sempre possibile affermano i sismologi. Le opere di sbarramento della Valle dell’Arno giacciono tra i rilievi pre appenninici dei Monti del Chianti e la catena appenninica vera e propria del Pratomagno, rilievi soggetti anche a forti fenomeni geosismici di assestamento. La zona del Mugello, dove si trova la diga di Bilancino, è a rischio sismico.

Filippo Arredi, professore emerito di costruzioni idrauliche dell’Università di Roma, nelle sue pubblicazioni asserisce che eventi funesti con cedimento di dighe si sono statisticamente verificati, in nessun caso, per motivi sismici sia per dighe in terra che in muratura nonostante sismi di magnitudo 6,6 ed, addirittura del IX grado.

Queste affermazioni sono rassicuranti ma, ammesso e non concesso che un terremoto causasse profonde fenditure nel terreno sovrastato da una diga, che succederebbe?

Recentemente si è svolto nel Mugello, dov’è la diga di Bilancino sul fiume Sieve, affluente dell’Arno, un importante convegno sui terremoti dell’area a rischio mugellana, ma non si conoscono le conclusioni dei geologi e sismologi.

Il pericolo sismico è comunque subdolo per cui è bene continuare con seri monitoraggi di tutti gli sbarramenti poiché la natura ci può sempre riservare tragiche sorprese. Per quanto concerne l’aspetto idrogeologico la domanda sorge spontanea: che fine ha fatto il progetto dell’Ingegner Nardi del 1989?

Le anatre beccheranno le stelle?

Bettino Ricasoli, in una lettera inviata ad un amico parigino dopo l’alluvione del 3 Novembre 1844 con devastanti conseguenze, così scrive: “Io dico che se Dio ci vuol castigare non è necessario che il castigo sia grosso. Ci pensiamo noi, mercè inprevidenza e spensieratezza a provvedere onde ne riceviamo tutte le conseguenze”.

In ogni caso l’Arno da sempre fa paura. Durante il Granducato di Toscana quando il tempo “si metteva al brutto” con piogge torrenziali prolungate, i fiorentini scrutavano il cielo esclamando: “piove, governo ladro”! L’espressione irriverente si riferiva al fatto che si verificavano estesi disboscamenti sugli Appennini per il discutibile controllo dei funzionari governativi.

Ed ancora: “questa è la volta che le anatre beccano le stelle”, poiché il livello dell’acqua si prevedeva che sarebbe salito ad altezze vertiginose!

Gli accadimenti, i danni, le paure e le polemiche di questo piovoso novembre ci hanno fatto tornare alla memoria tutto questo.

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