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La frase d’apertura

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  • Tempo di lettura: 8’. Leggibilità ***.

Stephen King, il grande scrittore del Maine, 500 milioni di copie vendute dei suoi libri, ama intervenire spesso sull’arte di scrivere e raccontare storie. E, fortunatamente, non ci ha fatto neppure mancare la sua opinione sul significato della prima frase di un romanzo. In un intervento su “The Atlantic” si è dilungato su questo argomento parlando anche del suo metodo di lavoro e delle prime frasi che lo hanno impressionato maggiormente. Ha confessato: La frase d’apertura? Ci impiego mesi, perfino anni, a inventarla.

Siamo lieti di offrire di seguito le sue riflessioni.

Vai agli altri articoli della serie “Gli incipit dei bestseller” e all’ultimo su Stephen King del New York Times.

La frase d’apertura è un invito

Ci sono ogni sorta di teorie e di idee su come inventare una buona frase di apertura di un romanzo. In realtà, è una faccenda complicata e difficile, anche per me che faccio questo mestiere. Perché mentre lavoro su una prima bozza non penso concettualmente, ma scrivo. Essere scientifici al riguardo è un po’ come cercare di catturare i raggi della luna per metterli in un barattolo.

Ma c’è una cosa di cui sono sicuro. Una frase di apertura invita il lettore a entrare nella storia. Dovrebbe dire: “Ascolta. Vieni qui. Vuoi sapere che cosa è successo?”

Come può uno scrittore fare un invito così allettante da non potersi rifiutare?

Tutti abbiamo meditato sui consigli degli insegnanti di scrittura e degli editor: iniziate un romanzo con una situazione drammatica o avvincente, perché così otterrete subito l’attenzione del lettore. Questo è ciò che chiamiamo un “gancio” e funziona fino a un certo punto.

Questa frase de Il postino suona sempre due volte di James M. Cain immette subito in un tempo e in un luogo specifici. Proprio come se stesse accadendo qualcosa sotto gli occhi del lettore. L’incipit dice:

Verso mezzogiorno m’hanno buttato fuori dal camion. C’ero saltato dentro la sera prima, giusto alla frontiera, e appena sotto il telone, tra le balle di fieno, m’ero addormentato come un sasso.

John Garfield (Frank Chambers) e Lana Turner (Cora Smith) ne “Il postino suona sempre due volte”, un film del 1947 tratto dall’omonimo romanzo di James M. Cain

Gettati subito nella storia

All’improvviso, siamo subito gettati nella storia — il protagonista si imbuca in un camion di fieno e viene scoperto. Ma Cain crea molto di più di un’attesa carica di tensione. I migliori scrittori lo sanno fare. Questa frase dice più di quanto li per lì dica. Nessuno salta su un camion di fieno, perché ha in tasca un titolo di viaggio. È fondamentalmente un vagabondo, un emarginato, qualcuno che sta per rubare o prende il volo da un crimine. Quindi, fin dall’inizio, il protagonista è già inquadrato in tre righe di testo. E da qui parte la curiosità.

Quest’apertura contiene anche un altro indizio. È, infatti, un rapido assaggio dello stile dello scrittore. Un’altra cosa che le buone penne riescono a fare. In “Mi hanno buttato giù dal camion del fieno verso mezzogiorno”, possiamo vedere subito che non ci saranno tante infiorettature nel romanzo. Ci sarà molta durezza e verità nella lingua, nessuna circonvoluzione. Il veicolo narrativo è semplice, snello (per non parlare del fatto che il libro ha solo 128 pagine). Che bella cosa! Veloce, pulito e letale, come un proiettile. Siamo subito conquistati e non vediamo l’ora di zumare.

Certo, qui è un po’ come vivere o morire per lo scrittore. Una prima frase davvero brutta può convincere a non comprare un libro… Perché, Santo Dio, ho già un sacco di libri — e uno stile poco riuscito già nella prima pagina è una ragione sufficiente per lasciare perdere.

Non dimenticherò mai le frasi di apertura pasticciate di A.E. Van Vogt — uno scrittore di fantascienza, morto da tempo — che andava pazzo per l’effusione. Dal suo libro Slan è stato tratto il film Alien — di fatto glielo avevano rubato per poi pagare qualche soldo ai suoi eredi. Ma era uno scrittore terribile, tremendo. Il suo racconto, Black Destroyer, inizia così:

Coeurl ronzava continuamente attorno!

Dopo averla letta si pensa: mio Dio! Posso davvero sopportare solo altre cinque pagine di questa roba? Viene da ansimare.

La voce di un romanzo deve essere inconfondibile come quella di Mick Jagger o Bob Dylan

La frase d’apertura è una voce

Quindi, un contesto intrigante è importante quanto lo stile. Ma per me, una buona frase di apertura inizia davvero con la voce. La gente parla molto della “voce”, quando pensa che in realtà significhi solo “stile”. La voce è più di questo. Le persone si avvicinano ai libri alla ricerca di qualcosa. Ma non vengono per la storia o per i personaggi. Certamente non vengono per il genere. Penso che i lettori vengano per la voce.

La voce di un romanzo è come quella di un cantante. Si pensi a cantanti come Mick Jagger o Bob Dylan, che non hanno una formazione musicale, ma sono immediatamente riconoscibili. Quando le persone scelgono un disco dei Rolling Stones è perché vogliono accedere a quella qualità inconfondibile dei Rolling Stones. Loro conoscono quella voce, amano quella voce e il loro spirito si collega profondamente a quella voce.

Bene, lo stesso succede con i libri. Chiunque abbia letto abbastanza di John Sanford, ad esempio, sa che la sua voce ironica e sarcastica è esclusivamente sua e non si può confondere con nessun’altra. O Elmore Leonard. Mio Dio, la sua scrittura è come un’impronta digitale. La riconosceresti ovunque. Una voce particolare crea una connessione emotivamente intima, un legame molto più forte di quello forgiato, intellettualmente, attraverso la scrittura.

Che tipo di narratore sei?

    Una illustrazione di Stephen King ispirata all’incipit di “Shoot” di Douglas Fairbairn 

Nei libri davvero buoni, la voce si sente subito, sin dalla prima frase. Il mio esempio preferito è il romanzo di Douglas Fairbairn, Shoot, che inizia con una sparatoria in un bosco. Qui vengono a contatto due gruppi di cacciatori provenienti da differenti parti della città. Un cacciatore viene colpito per sbaglio e con il passare del tempo la tensione cresce fino a diventare una guerra. In sostanza è una replica del Vietnam. E la storia inizia così:

Per me, questa è sempre stata la frase di apertura per eccellenza. È piatta e pulita come un “affidavit”. Incarna esattamente il tipo di narratore che abbiamo davanti. Qualcuno disposto a dire: ti dirò la verità. Ti dirò i fatti. Taglierò via le cazzate e ti mostrerò esattamente cosa è successo. Fa intendere anche che dietro c’è una storia importante, e dice al lettore: “la vuoi conoscere anche tu?”.

Una frase come “Questo è quello che è successo”, in realtà non dice nulla — non c’è azione o contesto — ma non importa. È una voce e un invito che è molto difficile da declinare. È come imbattersi in buon amico che ha informazioni preziose per te. È qualcuno, che dice ti poter offrire intrattenimento e forse un modo di guardare il mondo con occhi nuovi. Nella fiction, ciò è irresistibile. È per questo che leggiamo.

Il viatico dello scrittore

Abbiamo parlato tanto del lettore, ma non si deve dimenticare che la frase di apertura è importante anche per lo scrittore. Cioè la persona che è con gli stivali-sul-terreno. Perché non è solo il mezzo per tirare dentro il lettore, è anche il viatico dello scrittore. E si deve trovare una porta che si adatti a entrambi. È per questa ragione che inizio a scrivere miei libri solo dopo che ho una frase d’apertura. Scrivo prima quella frase, poi quando sono contento, inizio a sviluppare qualcosa.

Quando inizio un libro, scrivo a letto prima di addormentarmi, sto sdraiato nell’oscurità e penso: Proverò a scrivere un paragrafo. Il paragrafo di apertura E per un periodo di settimane, mesi e persino anni, scrivo e riscrivo finché non sono soddisfatto di quello che ho scritto. Se riuscirò a fare bene quel primo paragrafo, saprò che ho il libro in pugno.

Per questo motivo, le prime frasi mi restano appiccicate addosso per sempre. Sono state una porta che ho attraversato.

La frase di apertura del 23.11.63 è:

“Non sono mai stato un uomo facile alle lacrime”.

La frase di apertura de Le notti di Salem è:

“Pensavano quasi tutti che l’uomo e il ragazzo fossero padre e figlio”.

Vedete? Le ricordo!

La frase di apertura di It è:

“Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse anche di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.”

Questo è un incipit che ho riscritto infinite volte.

La miglior frase d’apertura possibile

Ma adesso posso dirti che la migliore prima frase che abbia mai scritto — e l’ho imparato da Cain, l’ho imparato da Fairbairn — è l’apertura di Cose preziose. È la storia di un tizio che va in città e usa rancori e animosità sopite per mettere i vicini di casa gli uni contro gli altri. E così la storia inizia con una frase di apertura a corpo 20 che occupa da sola un’intera pagina:

Tutta lì, da sola in un’intera pagina. Invita il lettore a proseguire subito! Suggerisce una storia familiare. Ma allo stesso tempo, questo attacco piuttosto insolito proietta il libro fuori dal regno dell’ordinario. E ciò, in un certo senso, è una promessa di quello che seguirà. La storia del prossimo contro il prossimo è la storia più antica del mondo, eppure questo romanzo è (spero) strano e in qualche modo diverso. A volte è importante trovare quel tipo di frase: una che incapsula ciò che accadrà senza però essere uno spoiler.

Tuttavia, non ho molti libri in cui la frase di apertura sia poetica o bella. A volte è totalmente ordinaria. Si va alla ricerca di qualcosa di cruciale, qualunque cosa purché alla fine funzioni. Questo approccio è quello che ho tentato nel mio recente libro, Doctor Sleep.

Ho voluto fare un salto temporale, da quello di Shining a quello del presente, prendendo i presidenti di oggi senza però usare i loro nomi. Il presidente che veniva da una fabbrica di noccioline, il presidente attore, il presidente che suonava il sassofono e così via. La frase è:

“Il secondo giorno di dicembre di un anno in cui un coltivatore di noccioline della Georgia era impegnato nei suoi traffici alla Casa Bianca, uno degli alberghi più rinomati del Colorado venne raso al suolo da un incendio”.

L’incipit di Doctor Sleep

Questo incipit fa tre cose. Ti colloca nel tempo. Ti colloca nel luogo. E ammicca alla fine del libro. Non so, però, se convincerà le persone che hanno visto solo il film, perché l’hotel nel film non brucia. Questo incipit non è né grandioso né elegante: è un apriscatole, è un’apparecchiatura della tavola. Ho preso spunto da una serie di eventi importanti, collegati alle amministrazioni presidenziali, per preparare il palcoscenico e iniziare la storia. Non c’è nulla di “grande” qui. È solo uno una di quelle finiture che cerchi di introdurre per dare un certo equilibrio nella narrazione. Però… mi ha anche aiutato a trovare il bandolo della matassa.

Ascolta, non puoi vivere solo di amore, e non puoi costruire una carriera di scrittore solo con le prime battute.

Un libro non reggerà e cadrà unicamente sulla prima riga di prosa. Ci deve essere la storia. Questo è il vero lavoro dello scrittore, creare la storia. Eppure una buona prima frase può fare tanto per modulare la voce. È la prima cosa che prende il lettore, che lo rende ansioso, che inizia ad arruolarlo per una lunga marcia. Quindi c’è un incredibile potere nella prima frase. È come se sussurrassi: “Vieni qui. Vuoi che te lo racconti?”.

A quel punto il lettore si mette in ascolto. Ed è fatta.

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