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Attualità di Tommaso Padoa-Schioppa

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Per una singolare coincidenza, in questo caldo (in tutti i sensi) mese di agosto, ci siamo trovati a rileggere la rievocazione di Romano Prodi (Università Bocconi, 1 febbraio 2011) della figura di Tommaso Padoa-Schioppa (1940-2010). Ne abbiamo parlato con l’autore che con piacere ha acconsentito alla sua riedizione sul sito Economia&FinanzaVerde.

Che senso ha questa uscita dopo tanti anni? TPS è stato un tecnico e un politico, che ha saputo rivestire entrambi i ruoli.

Prodi affermò che l’attualità della sua lezione umana e professionale, lo stile della persona e il suo rigore vanno oltre i limiti del tempo. Condividiamo questo giudizio.

La sua figura si eleva di molto, se paragonata al livello della classe dirigente del paese, la cui inadeguatezza è identificata da più parti come una delle cause della nostra condizione di debolezza.

Servire il paese era per lui sviluppare una azione continua, rifuggendo il facile consenso. Capiva che i mali dell’Italia erano e sono di natura strutturale: debito pubblico elevato, bassa crescita e sistema bancario arretrato.

Non si trattava di redigere anno per anno effimeri aggiustamenti di bilancio o introdurre provvedimenti di corto respiro. Le sue iniziative si dispiegavano in un contesto strategico, perché i difetti da correggere erano di lontana provenienza.

Ciò gli conferiva reputazione internazionale che giovava al paese e alla incisività delle politiche. Comunanza di questi valori e obiettivi e una visione alta delle Istituzioni sarebbero di riferimento ancora oggi a testimoniare che un’altra politica è possibile.

Purtroppo siamo immersi in riscontri di segno totalmente contrario.

Sul piano personale conserviamo il ricordo di un uomo che minimizzava i pur inevitabili errori dell’agire, perché sapeva ascoltare gli altri, fossero o meno d’accordo con lui. 

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Non riesco a parlare al passato di Tommaso Padoa-Schioppa. Non mi è possibile farlo per l’affetto e l’amicizia che ci hanno da sempre legati. Non mi è possibile perché l’attualità della sua lezione umana e professionale, lo stile della persona e il suo rigore vanno ben oltre i limiti del tempo.
Più volte ho incrociato nella mia vita la sua metodica precisione che, abbinata alla curiosità che solo una mente aperta può avere, ne ha fatto per me un punto di riferimento. Egli è uno degli europeisti più convinti che abbia conosciuto, uno degli economisti più raffinati, uno degli intellettuali più puri.

In questa breve riflessione sugli anni di Governo di Tommaso Padoa-Schioppa non mi è perciò facile separare il ricordo delle nostre conversazioni libere e aperte (a volte arricchite da una certa comune ingenuità) da quello delle lunghe e faticose riunioni nelle quali si cercava di approfondire gli aspetti tecnici e le conseguenze economiche delle nostre proposte e dei nostri provvedimenti.
D’altra parte è un’esperienza difficilmente ripetibile poter combinare una serie e candida analisi dei problemi con una completa identità di intenti sugli obiettivi fondamentali della comune azione politica.
La decisione di affidare a Tommaso Padoa-Schioppa uno dei più delicati e complessi compiti di Governo non era infatti derivata soltanto da una collaudata fiducia sulle sue doti di intelligenza e sulle sue capacità tecniche, ma anche da una assoluta sicurezza sulla comunanza di valori e di obiettivi.

Partendo da queste premesse è stato possibile affrontare senza tensioni, anche se con la necessaria dialettica, i problemi più difficili, a partire dal ben noto dibattito sulla politica dei due tempi e sul contrasto fra efficienza ed equità.La crescita infatti è sempre stato il punto di arrivo della politica di Tommaso Padoa-Schioppa, ma il risanamento ne ha costituito il pilastro fondamentale.

Questo non significa affatto adottare la politica dei due tempi (prima il risanamento e poi la crescita) ma comporli nel modo compatibile con gli obiettivi e i vincoli dell’Italia. Per questo motivo la strategia finanziaria è stata obbligata (anche per tenere conto dei necessari impegni europei) ad attribuire un maggior peso al risanamento nel primo anno e un maggior accento sulla crescita nell’anno successivo.

Partendo da una analisi realistica in cui si descriveva l’Italia (e sono sue parole) come “un’impresa indebitata e gravemente sottocapitalizzata, con punti di forza in imprese e settori che tuttora eccellono “ma che nel suo complesso perde posizioni nel mondo”. Con grandi potenzialità e ottime possibilità di ritornare a produrre ricchezza ma solo dopo “uno sforzo eccezionale e prolungato”.

Nella nostra complicata coalizione di Governo questa diagnosi aveva costituito l’occasione per riaprire il dibattito sui due tempi e per dare luogo ad interpretazioni per molti punti dissonanti nelle diverse anime della coalizione. Una discussione che non cessò mai di scuotere la vita del Governo anche quando si manifestarono i lati positivi della sua azione in termini di riequilibrio dei principali parametri dell’economia italiana.
Il rigore aveva dato infatti risultati straordinari, con una vigorosa riduzione del deficit, attraverso la quale si passa dal 4,2% del 2005 (soglia che aveva sottoposto l’Italia a procedura di infrazione per “disavanzi eccessivi”) all’1,9% del 2007.

L’avanzo primario che era stato faticosamente ottenuto negli anni che avevano preceduto l’entrata dell’Euro (con un picco al 6,6% del PIL nel 1997) si era infatti pressoché azzerato fino ad arrivare allo 0,3% del PIL alla vigilia del nostro governo. Tale avanzo è stato riportato al 3,1% facendo pendere la bilancia del debito pubblico verso il sentiero discendente, dal 106,5 nel 2006 al 103,5 nel 2007. Ed è certo preoccupante che tale avanzo primario, anche se con il contributo della crisi economica, si sia di nuovo azzerato.

Una efficace azione permanente di contrasto all’evasione fiscale e l’adeguamento dei coefficienti di liquidazione delle pensioni alle mutate speranze di vita (previsto dalla riforma Dini ma mai messo in atto), ponevano inoltre le premesse per garantire il mantenimento di un percorso virtuoso anche nel lungo periodo.
Una strategia quindi rivolta a raggiungere il pareggio di bilancio e riportare il debito pubblico in linea con i parametri europei in modo da rendere disponibili (come ripetutamente ricordava Padoa-Schioppa ad una audience non sempre disposta ad ascoltarlo) decine di miliardi di Euro all’anno per investimenti nel capitale fisico e umano, per ridurre la pressione fiscale e per sviluppare i programmi sociali ancora carenti.

Una strategia che esigeva profonde riforme nel modo di operare del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Per questo motivo egli volle sull’esempio del tesoro britannico, adottare il sistema della “spending review”, che sarebbe stata messa in atto partendo dalle conclusioni della commissione tecnica per la finanza pubblica costituita sotto la presidenza del Prof. Muraro.

Il passaggio a un bilancio classificato per missioni e programmi pose le premesse per una approfondita discussione politica – prima nel Governo e poi nel Parlamento – degli obiettivi e delle priorità necessarie per realizzare una gestione responsabile delle risorse da parte delle pubbliche amministrazioni.
Ed è attraverso questi strumenti che sono state consegnate al Ministro che è succeduto a Tommaso nel maggio 2008 le basi tecniche e conoscitive per una riqualificazione totale della spesa pubblica.

Come abbiamo in precedenza sottolineato il risanamento non è mai stato separato da una strategia di sviluppo economico e sociale, perseguito per mezzo di sgravi fiscali a favore delle imprese e dei cittadini (abbattimento dell’IRAP e IRES e dei contribuenti minimi), recuperando risorse nell’ordine di 40 miliardi per spese per infrastrutture e ponendo le basi per riforme settoriali tra le quali mi limito a segnalare il patto per le Università, mirato a modelli di finanziamento correlati al “merito” e alle capacità gestionali dei diversi atenei.

Non poche sono state le discussioni e non poche sono state dure le controversie su queste decisioni (a proposito delle quali vorrei tuttavia ricordare che il processo di approvazione delle leggi finanziarie, anche se certamente troppo contorto, non era allora un semplice rito). Mi ritorna alla mente in particolare la sofferta decisione sul cosi detto “cuneo fiscale”, ritenuto uno strumento di vitale importanza per fare riprendere competitività alle imprese e per assicurare al Governo una minore ostilità da parte del mondo degli affari.

Il primo di questi obiettivi è stato pienamente raggiunto, essendo state le imprese sollevate di quasi cinque miliardi di contributi fiscali. Non certamente il secondo perché le tensioni con il mondo produttivo si acuirono ulteriormente già all’indomani della decisione.
Risanamento e sviluppo, infine, non potevano essere separati dall’equità. Essa partiva dalla necessità di una azione sistematica e duratura contro l’evasione fiscale e passava attraverso sgravi di imposta e trasferimenti in favore dei meno abbienti.

In concreto, come già si è fatto cenno, si è attuata una riduzione dell’ICI selettiva per le prime case, di sgravi IRPEF, di un bonus ai contribuenti “incapienti” per una cifra superiore ai 5 miliardi all’anno e della firma di un protocollo sul welfare.
Tutto questo, citando le parole di Tommaso, si era ottenuto “nel contesto di una infuocata temperie politico-mediatica, della quale non ricordo l’eguale negli ultimi decenni”.

La tempesta mediatica era stata particolarmente violenta allorché T.P.S. (come noi confidenzialmente lo chiamavamo) aveva, con voluta ingenuità, osato sottolineare la “bellezza del contribuire, ciascuno con le proprie capacità, alle spese necessarie per il bene comune”.
Pochi giorni fa ho rivisto e voluto rivedere sugli schermi televisivi questa sua dichiarazione e mi sono ancora sorpreso che queste parole di altissimo valore civile possano essere state oggetto di ironia e disprezzo.

Debbo purtroppo concludere che questo non può che essere la conseguenza di un degrado del costume etico e democratico della nostra Italia, come era peraltro la sua dominante preoccupazione anche nei lunghi incontri che abbiamo avuto nelle settimane precedenti la sua morte.

L’altra battaglia di contenuto etico che ha voluto combattere durante la sua azione di Ministro dell’Economia e delle Finanze è stata la lotta contro il morbo del breve termine che corrode tutte le democrazie moderne, ma in particolar modo quella italiana.
Una malattia che spinge il decisore politico a pensare solo all’oggi e non al domani, rincorrendo il singolo voto della sempre prossima e imminente elezione politica.
Una malattia che, alla lunga, non può che portare all’indebolimento e poi all’estinzione di qualsiasi organizzazione sociale. E che è in grado di distruggere la fiducia dei cittadini nella nostra democrazia.

La principale virtù che va riconosciuta a Tommaso è proprio quella di avere individuato gli obiettivi da raggiungere nel lungo periodo, averli perseguiti con tenacia e avere preparato gli strumenti, le procedure e i regolamenti necessari ad assicurare la concreta realizzabilità del percorso individuato.

Con lo stesso metodo è stato affrontato il disegno federalista. Non per vincere una gara di demagogia, ma per raggiungere questo obiettivo rispettando i vincoli legati alla partecipazione dell’Italia all’Europa e i principi volti a garantire la perequazione tra i territori. Questi obiettivi (come ripeteva Tommaso) non possono che essere raggiunti attraverso il superamento della spesa storica, attraverso il coordinamento tra i diversi livelli di governo e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
Soprattutto spiegando apertamente che non è possibile pensare ad un federalismo in cui tutti guadagnano percentualmente rispetto al passato e in cui nessuno deve cedere qualcosa.

Non mi nascondo che questo metodo rigoroso di lavoro applicato in tutte le decisioni politiche ha iniettato forti tensioni in non pochi momenti di vita della coalizione di Governo, ma tale metodo è stato tenacemente applicato, nella ferma convinzione che senza questa durezza non si sarebbe mai potuti uscire dalla spirale negativa in cui l’Italia si era avvitata.

Questi concetti sono riassunti nelle parole di Tommaso quando scriveva (Corriere della Sera, 12 novembre 2006) che “fare ordine alla spesa pubblica rinunciando al superfluo è faticoso, per le persone come per le istituzioni; tuttavia questo sforzo può costituire l’occasione, forse irripetibile, per migliorare la qualità dei servizi pubblici e rendere il paese migliore e più competitivo”.
Credo che la crisi economica non abbia reso obsoleti questi obiettivi. Credo invece che li abbia resi più urgenti e necessari.

E’ quindi indispensabile cogliere il significato profondo della battaglia combattuta da Tommaso Padoa-Schioppa per indirizzare il bilancio pubblico verso la crescita economica e per ridurre progressivamente nel tempo il carico fiscale sui contribuenti che hanno fatto il loro dovere, con il risultato di alleggerire anno per anno il peso del debito. Una politica difficile, che esige di investire nel lungo periodo, che esige costanza e che richiede di pensare continuamente al futuro e non al presente. Una politica che noi chiamavamo confidenzialmente “la politica delle formiche”.
Mi rendo conto che anno per anno queste formiche debbono trasportare un peso sempre maggiore e che da tempo questo peso ha raggiunto un livello quasi insopportabile.
Bisogna perciò che le tante formiche lavorino insieme, camminino nella stessa direzione e ciascuna di esse porti un peso adeguato alle sue forze.

Questo però non basta.
Bisogna che questo Paese si ponga il comune obiettivo di spendere meglio.
E, come ripeteva T.P.S. vi è un ampio spazio per riuscirci. Alcuni risultati possono essere ottenuti con l’eliminazione dello spreco, la correzione di fenomeni di cattivo costume e la riduzione dei costi della politica. Altri, quantitativamente più rilevanti, potranno essere conseguiti solo incidendo sulla organizzazione degli uffici, sulla loro dislocazione territoriale, sulle strutture dell’amministrazione e sulla gestione delle risorse, adeguando le strutture ai nuovi e diversi bisogni, eliminando programma obsoleti e funzioni anacronistiche.

Per fare ciò occorre intervenire sui meccanismi profondi di generazione della spesa, rivedere le priorità in ciascun settore, abbandonare attività ormai superflue, riconsiderare le modalità di definizione dei costi e l’organizzazione della produzione dei servizi, sfruttando sempre le possibilità offerte dalle nuove tecnologie.

Si tratta di un insegnamento molto semplice perché semplice è il richiamo alle necessarie virtù collettive.
Un richiamo che Tommaso Padoa-Schioppa ha costantemente ripetuto con le parole e con l’esempio della sua azione.
Un richiamo che il più delle volte si è perso nei complicati meandri della politica e nelle incomprensioni della società.
Un richiamo che tuttavia noi dobbiamo fare nostro se vogliamo preparare un posto per la nostra Italia in un mondo in cui i cambiamenti procedono con una velocità e un’ampiezza senza precedenti.

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