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Tanti, piccoli e dispersi.
“Na tazzulella ‘e cafè e mai niente c’è fanno sapé” cantava anni fa al suo esordio il compianto Pino Daniele.
Proprio sorseggiando un caffè, apprendo che “Starbucks”, la catena di caffetterie famosa in tutto il mondo (30mila punti vendita in 80 paesi), dopo le recenti aperture di locali a Milano, si prepara a conquistare il Belpaese.
Il primo commento che viene da fare è, parafrasando il noto politico ex magistrato, “che ci azzecca” Starbucks e i suoi bibitoni American style con la nostra cultura del caffè?
E invece la notizia, che riguarda un settore alimentare importante per l’economia italiana (tra i primi tre paesi del mondo di importatori ed esportatori di caffè, con 800 torrefazioni e un volume di affari di quasi € 4 mld, a cui si aggiunge una rete distributiva di circa 150 mila bar), mette ancora una volta a nudo la debolezza della struttura produttiva e distributiva del nostro paese.
Da tempo autorevoli commentatori evidenziano che il “nanismo” delle imprese italiane non può più considerarsi un punto di forza, bensì un fattore che impedisce di competere nei mercati esteri e che limita la capacità di investimento e di innovazione.
Ma la convinzione del “piccolo è bello” è ancora diffusa e trova una convinta sponda anche nella dirigenza politica di turno, che a prescindere dal colore (rosso-giallo-verde-nero) e l’alto tasso di rissosità, manifesta unanimità di consensi su questo tema.
Questa convinzione si basa sulla fiducia del made in Italy, che garantirebbe alle aziende nostrane “nicchie di mercato” al riparo della concorrenza straniera e anzi, talora, anche una vocazione internazionale. Sta di fatto che l’Italia ha sempre meno imprese di dimensioni significative e continua da diversi decenni a scalare verso il basso la classifica di “Fortune” delle prime 500 aziende mondiali, con indicatori di produttività sistematicamente peggiori rispetto alla media dei paesi europei.
L’economia di nicchia
Ritornando al caffè, il Corriere della Sera (28 giugno 2019) ha evidenziato che la “Nestlè, colosso alimentare, ha incalzato le nostre “nicchie” del caffè, anche se ormai multinazionali, come Lavazza e Illy, con l’innovazione delle capsule Nespresso”.
L’ arrivo di Starbucks mette in evidenza un ulteriore aspetto. Le multinazionali della distribuzione alimentare soddisfano un bisogno che può essere soddisfatto anche da punti vendita di altre catene (ad es. Mac Donald) o addirittura da qualsiasi bar (in definitiva si tratta di caffè, brioches, cappuccini, ecc.).
Tuttavia, grazie a robusti investimenti accompagnati da ben mirate strategie di marketing e politiche commerciali, riescono a far percepire agli utenti una forte differenziazione dell’offerta dei prodotti e del marchio (nel nostro caso “Starbucks”) rispetto ai concorrenti. Ciò porta anche a giustificare differenze di prezzo per beni simili (come il caffè).
Se invece si fa la comparazione tra due bar tradizionali nella medesima zona in una qualsiasi città italiana, i prezzi tendono ad allinearsi, così come, nella percezione dei clienti, la gamma dei prodotti e la qualità del servizio offerto.
Questa bassa differenziazione, però, è uno degli elementi di debolezza strutturale del nostro sistema (è appena il caso di rammentare che il settore dei bar è connotato da una elevata mortalità imprenditoriale).
Caffè amaro
Più in generale, i fattori di debolezza del sistema produttivo italiano, che non sono certamente circoscritti al comparto del caffè, meriterebbero una trattazione molto più ampia e approfondita. Qui ci limitiamo ad evidenziare che l’argomento, è pressoché assente nel dibattito pubblico e, oggi più che mai, nell’agenda della politica industriale nazionale.
Sempre in tema di caffè, calzanti e oltremodo attuali sono invece i versi della canzone di Pino Daniele sull’inadeguatezza delle classi dirigenti che “invece e rà namano”, “s’allisciano, se vattono, se pigliano o’cafè”. Il quale caffè probabilmente in un futuro non molto lontano non sarà più gustato in un bar nostrano, sia esso un elegante locale del centro delle città o uno dei tanti “Bar Sport” disseminati nel territorio, bensì in qualche punto vendita dello Zio Sam! E, soprattutto, non sarà più lo stesso.