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Nasce l’Italia dell’euro
Il prestigio dell’Italia è tale che sarebbe stata inconcepibile Eurolandia senza il Bel Paese. La nostra partecipazione però non fu agevole quanto al rispetto dei criteri stabiliti a Maastricht. Anche in questo caso, ci dice Mody nel suo libro, fu una decisione politica.
Ovvio, che la politica non può risolvere gli effetti macroeconomici negativi legati al nostro ingresso in Eurolandia. La retorica e la propaganda hanno fatto il resto, come si è già visto. L’Europa assicurava una epoca di prolungata pace, l’apertura delle frontiere, la libertà di movimento di servizi e merci, la politica monetaria comune. Queste realizzazioni sono propedeutiche all’unione politica che prima o poi arriverà. Tuttavia, queste considerazioni servono a poco se il nostro paese cresce meno degli altri ed è chiamato periodicamente a manovre finanziare improntate a criteri di austerità.
Dal canto suo, l’euro in questi anni ha manifestato in modo evidente la sua debolezza in termini di progetto complessivo e di visione di insieme. L’assenza di un bilancio unico federale complica la gestione delle politiche economiche riversando sulla politica monetaria compiti che le sono impropri. Politiche monetarie espansive come quelle che stiamo sperimentando, peraltro avviate con molto ritardo, trovano un limite evidente nella politica fiscale restrittiva. Ed allora di nuovo il solito mantra delle riforme strutturali per i paesi più deboli. Un dilemma da cui non si viene fuori da quando l’euro è stato varato. Eppure qualcuno lo aveva capito.
Guido Carli e l’euro
Per Carli il miracolo economico degli anni ‘50 e ‘60 è occorso in un contesto politico “corrotto”, in cui le norme erano violate con sostanziale impunità degli autori.
L’eredità del fascismo di una industria pubblica dominante e di una privata finanziata dai contribuenti (siamo secondi con la Grecia al top delle classifiche internazionali) impone alla classe politica di creare una protezione interna a tale coacervo di interessi.
L’obiettivo è di difendere il paese dalla competizione internazionale. Il sistema politico è dominato dalla Democrazia Cristiana con i Comunisti all’opposizione per ragioni geopolitiche. Nelle sue lucide parole, Carli dice che la Dc aveva il monopolio del potere. Il protezionismo interno di cui egli si lamenta, trova rispettabilità nel nostro paese, quando ci si appella alla solidarietà cattolica e all’egalitarismo social-comunista.
In altri termini Carli intendeva probabilmente dire che in entrambi le visioni non vi era abbastanza senso dello stato. E che quindi la nostra storia sarebbe rimasta vincolata alle pressioni di lobby varie, che avrebbero sempre scaricato sulle finanze pubbliche le loro contraddizioni e il conseguimento degli equilibri necessari alla loro sopravvivenza.
L’ingresso nell’euro si associa a un momentaneo miglioramento della congiuntura economica e delle finanze pubbliche, anche se il rapporto debito/PIL è intorno al 120 per cento contro il 60 richiesto da Maastricht.
La retorica politica interna fece il resto inneggiando a un nuovo Rinascimento e ai progressi straordinari che il paese stava compiendo. In Europa l’influenza del Cancelliere della riunificazione tedesca Kohl fu decisiva nel farci ammettere “Non senza gli italiani, prego”. In quei giorni furono coniate altre parole che magicamente ci accompagnano da una vita: riforme strutturali per gli anni a venire. Eravamo dentro l’euro, c’è l’avevamo fatta. Come, l’abbiamo appena visto.
E Carli nei suoi ricordi in Cinquant’anni di vita italiana (Laterza, 1993) annotò che i vincoli e gli appelli europei nel nostro paese contavano pressochè zero.
Un breve ricordo personale di una cena a Trento anni fa. Rappresentavo la Banca d’Italia e mi ritrovai a tavola con Prodi, Andreatta e Carli. Si partì da lontano, ascoltavo e all’inizio non capivo il nesso. Per il Vangelo è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco possa andare in Paradiso. Per il comunismo la proprietà privata è un furto.
Poi fu chiaro quando il ministro Andreatta illustrò senza mezzi termini che in un paese a forte influenza cattolica e comunista, in base a una indagine da egli stesso commissionata, una sola famiglia italiana (quella dei Ferruzzi, poi protagonista dello scandalo Montedison e di buona parte di Tangentopoli), possedeva una delle più grandi estensioni di terra al mondo dall’altra parte dell’oceano. Il latifondo era superiore perfino ai possedimenti della corona inglese che pure ha mille e più anni di storia, e che storia. In questa parabola c’è molta della nostra storia più recente. Ricchezza privata massima, responsabilità sociale minima, senso dello Stato nullo.
Subito dopo aver firmato il Trattato di Maastricht, scoppiava dunque anche il primo grande scandalo politico finanziario d’Italia e l’offensiva della criminalità contro lo Stato raggiungeva il picco. Sono gli anni 1992/93 e la coincidenza dei tempi non sembri un caso.
Che dovevamo riformare un po’ tutto, prima di poter ricoprire a pieno titolo il nostro ruolo in Europa, diventava la nostra fatica di Sisifo.
Tutto questo ci collega a Carli, all’euro, a Mody e a come finirà.
Come finirà
Quasi un centinaio di pagine sono dedicate alla fine di questa tragedia, secondo Mody.
Difficile dire se sarà così, ma trovo molto interessanti alcuni ragionamenti che egli ci sottopone. Gli scenari sono due. Il primo, invero di minor interesse, si incardina sullo status quo; rimane tutto così come è ora. Cina e Usa avranno la leadership nei prossimi anni con i paesi europei, in specie i fondatori dell’Ue, che arrancano per mantenere le proprie posizioni nel commercio internazionale.
Il secondo scenario è significativamente destinato a un’allentamento dei vincoli europei. Qui si sente il feeling americano di Mody e non certo il compiacimento per le idee dei sovranisti e dei populisti. La tesi in questo caso è che l’euro non è stata una scommessa vincente e quindi molti miti europeisti possono essere sfatati. Immagina che il Cancelliere Merkel indirizzi agli altri Capi di Stato e di Governo un discorso politico basato su tre punti.
Essi sono: rimozione delle norme fiscali di controllo dei budget nazionali, riduzione del debito pubblico greco di due/terzi senza contropartita, impossibilità di gestire a livello europeo un budget fiscale unico con emissione di eurobond.
In sostanza, si prende atto di un fallimento della costruzione europea e si allentano i legami fin qui costruiti. L’Europa che si ha in mente in questo caso è quella del sedicesimo e diciassettesimo secolo, quella sì della frammentazione politica, ma unita dalle arti, dalle lettere e dalla scienza di Galileo, Keplero e Newton. Altre unioni non sono date.
E per l’Italia ?
Il libro mi ha convinto su due punti essenziali. Sull’opzione più Europa sono ormai in pochi a fare affidamento. E’ tutto molto macchinoso e poco snello nel far immaginare assetti di governo oltre quelli che già esistono. L’altro punto, riguarda le forti interdipendenze che esistono tra i vari paesi europei anche se fatichiamo a riconoscerle. Dopo che abbiamo rammentato che possiamo viaggiare e studiare liberamente per spendere gli euro che abbiamo in tasca, non andiamo molto avanti.
Il libro quindi è un bagno di sano realismo che fa terra bruciata di tutte le parole magiche di cui si è nutrita la politica europeista e in modo complementare la nostra politica interna. Il mantra da sgranare, abbiamo visto, è lungo: riforme strutturali, stabilità, austerità, negoziati, unione politica, procedimenti di infrazione per mancati rispetto delle regole ecc.
Come ha scritto il Premio Nobel George Akerlof nella recensione, il libro racconta la storia del tentativo dell’Europa di costruire l’unione politica intorno a una moneta. Come a dire quanto coraggiosi e temerari bisogna essere per sfidare la storia e forse, come nelle tragedie, anche gli dei.
L’Italia è entrata nell’euro per motivi politici e vi rimane per gli stessi motivi. L’uscita, che pure potrebbe avere costi altissimi, non conviene a nessuno, perché ritorneremmo alle abitudini di prima con l’aggravante che sono finiti, come già notava Carli, i tempi del boom economico.
Ci rimarrebbe poco della nostra ritrovata sovranità. In più, se le regole fiscali europee sono stupide, come ci ha ricordato Mody prendendo a prestito le parole dell’allora Presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, è pur vero che altre regole sono molto più intelligenti. Soprattutto sarebbe intelligente e di buon senso rimediare alle nostre disastrate finanze, la cui situazione è facilmente riepilogabile. Ogni anno paghiamo 60/70 miliardi di euro di interessi sul debito pubblico e registriamo 130 miliardi di evasione fiscale. Euro o non euro è impensabile occuparsi di sviluppo in queste condizioni.
Un’agenda, non proprio minimale, per uomini non di partito, ma di buona volontà dovrebbe far progredire il nostro paese verso migliori modelli culturali ed economici.
Indico tre percorsi virtuosi che a mio giudizio sono mancati in questi anni: la ricostruzione del sistema bancario italiano (disastrato dal prolungato periodi di scandali e crisi) con riforma della vigilanza bancaria o di quello che resta, sviluppo dei servizi di pagamento elettronici (siamo ultimi nel mondo occidentale) quale volano per l’economia digitale, recupero dell’evasione fiscale con l’obbligo per l’amministrazione di evitare accertamenti fiscali a chi già paga tasse e imposte.
Il ragionamento sarebbe da completare, suggerendo che questi cambiamenti vadano affidati a istituzioni e autorità fornite di adeguate capacità, che forse al momento non hanno. Perché la crisi dei corpi intermedi della nostra società è un altro punto che ci disallinea dal resto d’Europa.
Ma credo che, continuando così, sfiorerei l’utopia.
Bravo Gerardo, la tua trilogia mi è piaciuta molto. La condividerò con le mie amicizie affinchè i nostri discorsi sui destini patri siano meno scontati.proveró anche a portarla all interno del sonnacchioso Pd zingarettiano….forse con Renzi ……mah
Giovanna
Grazie Giovanna e piacere di sentirti. Quanto al PD non credo siano tanto interessati a questi ragionamenti.