Home Mediterraneo Erano ‘migliori’ gli scandali di una volta?

Erano ‘migliori’ gli scandali di una volta?

4545
0
Tempo di lettura: nove minuti. Test di leggibilità ***.
Finanza europea e finanza italiana

Gli anni successivi alla nascita del nuovo Regno d’Italia (1861) furono di rivolgimento sia urbanistico che economico, con il coinvolgimento dei mercati finanziari europei.

L’industrializzazione e il riassetto delle città erano infatti un richiamo per capitali dalle molte provenienze.

Il Senato italiano riunito nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio

Emergeva una classe dirigente fatta di nuovo e di antico. Il Senato del Regno apriva le porte a uomini che avevano dato contributi d’azione e di pensiero, economici e culturali all’Unità. Una nascente ricca borghesia, soprattutto mercantile, si univa con la più antica aristocrazia.

Dal 1865 al 1871 Firenze tornò in primo piano, come non lo era più stata dai tempi di Lorenzo il Magnifico, diventando la nuova capitale dello stato unitario. Ci furono però anche gravi casi di malcostume politico-affaristico, che riempirono le cronache dell’epoca.

Famiglie di una volta

I banchieri toscani erano in quel momento i più potenti del Regno, non solo per compattezza di “consorteria”, ma per proficui obbiettivi legittimati dall’essere al centro di una nazione che si stava formando.

Le nuove classi sociali si consolidavano, anche grazie a matrimoni d’interesse. La borghesia si fondeva con la nobiltà. Il denaro acquisiva potere blasonato. Le parentele si estendevano dando potenza a nuovi banchieri.

Partecipazione di nozze, da I nuptialia

Il ricco e potente Conte Pietro Bastogi di Livorno, con titolo nobiliare ottenuto soltanto nel 1861, aveva tramandato in dote molte delle sue ricchezze alla figlia Beatrice, al momento del di lei matrimonio con il rampollo della più antica nobiltà: la casata dei Principi Corsini.

Fenzi, Barberini Colonna, Ricasoli, Cambray Digny ed altre famiglie diventavano i principali detentori del potere nella nuova Italia.

Lo scandalo delle Strade ferrate meridionali

Nel 1862 era nata la “Società Italiana per le strade ferrate meridionali”. L’iniziativa era stata ideata e promossa dal Conte Bastogi, con il supporto dei solidi banchieri toscani Adami e Lemmi, già conosciuti per aver finanziato l’impresa garibaldina. L’alleanza non andò però come Bastogi aveva previsto e insieme a Domenico Balduino, presidente della Cassa di Commercio e Industria, che poi cambiò nome in Credito Mobiliare, estromise gli Adami e i Lemmi, inserendo più fidati finanzieri.

Nel consiglio di amministrazione della società sedevano ventidue membri, quattordici dei quali erano deputati del Regno.

In breve tempo i sospetti sul rilascio della concessione, sollevati anche dalla stampa, divennero certezza. La corruzione a mezzo tangenti venne alla luce dopo pochi mesi dalla costituzione della società. Emerse che lo stesso Presidente della Commissione parlamentare, incaricata di controllarne l’operato, aveva preso soldi dalla società del Bastogi.

Lo scandalo fu immenso. Circolarono voci malevoli anche sul Re. Ma non ci furono strascichi giudiziari. Nessuno fu condannato se non a “riflettere” in futuro con maggior saggezza. La nuova nazione si era appena costituita, c’era un nuovo stato da organizzare, nuove imprese da costruire, un’unica banca d’emissione da fondare (da sei che ne erano) e regole di politica economica da stabilire.

La costruzione delle strade ferrate italiane era il veicolo della espansione capitalistica del nuovo Regno. Il potere finanziario si ricompattò e, politicamente, rimase per anni nelle mani della Destra Toscana e dei suoi ricchi banchieri.

Costruzione di Firenze capitale

La nascita di molte banche nel periodo di Firenze capitale era facilmente comprensibile. C’era ingente necessità di credito, sia per i lavori di rifacimento della città sia per la nascita di nuove industrie. La città contava 118.000 abitanti, con l’arrivo dei piemontesi sfiorò i 150.000.

Si voleva e si doveva dunque costruire una nuova e grande città. Non importava quanti soldi sarebbero occorsi. I progetti erano urbanisticamente spettacolari e lungimiranti e non dovevano trovare ostacoli nella conservazione di vecchi quartieri medievali e rinascimentali.

Molti erano gli appalti per i lavori pubblici, che comprendevano la costruzione di nuove piazze, di strade, di viali alberati, dello spettacolare Piazzale Michelangelo, di una nuova rete fognaria per il convogliamento delle acque in Arno.

Il primo importante cliente bancario in cerca di soldi fu proprio il Comune. Nelle cronache del 1865 del nuovo giornale la Nazione, si legge di trattative, poi non andate a buon fine, con la Banca Nazionale Sarda, poi Banca Nazionale nel Regno d’Italia, dell’allora Direttore Generale Carlo Bombrini.

Carenza di alloggi nella nuova capitale

L’ aiuto arrivò invece da influenti personaggi della finanza inglese: la Gresham Life Assurance, la Sunfine Office company, la Cagliaris gas and water company e la Mocenis railway company (poi Creswell), società che successivamente confluirono nella Florence land and pubblic work del banchiere Hudson. Erano tutte rappresentate dall’avvocato Tommaso Corsi.

Non si potevano escludere potenti influenze massoniche nella città nella quale nel 1731 era nata la prima loggia italiana.

La politica della destra liberale fiorentina nel 1865 era totalmente concentrata sui lavori di rifacimento cittadino.

L’investitura della capitale del nuovo Regno generava un senso di onnipotenza.

Molti affaristi si precipitarono in città, gli speculatori inseguivano la domanda di alloggi per l’insediamento della Burocrazia del Nuovo Regno. Piazza d’Azeglio con i suoi ministeri e Piazza Indipendenza con le sue residenze borghesi e gli uffici delle professioni liberali erano i simboli urbanistici del nuovo. Tutti facevano ottimi affari.

L’Italia era il paese dove si costruivano capitali!

Mentre si avviavano i lavori a Firenze, si intravvedeva già la prospettiva di Roma. Una peculiarità davvero unica. Una fonte illimitata di business edilizio-finanziario per il decollo economico della nazione.

Molti istituti di credito nacquero in questo periodo: la Banca degli Imprestiti agli impiegati del Regno D’Italia, la società di Credito Mobiliare, l’Anglo Italian Bank, la Banca di Credito di Firenze, la Banca degli Steinhauslin. La Banca Nazionale Toscana rimaneva la più influente.

Banchieri anglo toscani

Ai vertici della Anglo Italian Bank figuravano Sir James Hudson, James Philip Lacaita, Bettino Ricasoli e Ulisse Guarducci.

C’era bisogno di riportare ordine nella politica cittadina. La Gazzetta di Firenze, che era di area più moderata rispetto a La Nazione, auspicava di vedere gli interessi speculativi messi in disparte, sollecitando più oculatezza nell’amministrare la città.

Chiedeva di regolamentare una politica bancaria in quel momento sfrenata, che avrebbe creato problemi in futuro. I rapporti tra governo e banche andavano armonizzati.

Rete Strade Ferrate Meridionali nel 1873

Ne nacque una diatriba tra il banchiere Seismit Doda e Quintino Sella, accusato pubblicamente di aver forzato i tempi per una banca unica, aumentando il capitale sociale della Banca Nazionale degli Stati Sardi, in funzione della fusione con la Banca Toscana di Credito, per la costituzione della Banca Nazionale nel Regno d’Italia.

Il ministero delle finanze, retto da Quintino Sella, ma di fatto sotto l’egida del Cambray Digny, Gonfaloniere della città, acquisiva sempre più potere.

Gli interessi della classe dirigente toscana si stavano espandendo e l’attenzione era per il Credito Mobiliare del genovese Domenico Balduino. Fu allora che Bettino Ricasoli suggerì al conte Bastogi, di fondare una società di strade ferrate meridionali a capitale privato italo-inglese, in alternativa a quella dei Banchieri Rothschild impegnati nella costruzione delle ferrovie del nord Italia. Era un modo per valorizzare la forza del capitalismo italiano.

La società che si formò in Firenze era molto potente ed esercitava  la propria influenza su tutte le intraprese cittadine. Gli Hambro, gli Hudson e i Baring affiancarono la Banca Nazionale e la Banca di Credito di Firenze.

La Banca Nazionale nel Regno d’Italia

La sua complessa identità potrebbe risiedere tutta in quella preposizione: “nel” e non “del”. Si doveva evitare che occupasse un posto di supremazia assoluta nel contesto istituzionale del nuovo paese. Trovava l’opposizione delle altre banche. Al massimo poteva essere una prima, inter pares.

Era la creatura di Carlo Bombrini, genovese, ma oramai fiorentino e presto romano, al vertice del primo nucleo di una banca centrale moderna.

Disposizioni alle banche a seguito dell’introduzione del corso forzoso della lira firmata dal Direttore Generale della Banca Nazionale nel Regno d’Italia Carlo Bombrini  il 5 maggio 1866

Il documento che introdusse il corso forzoso della lira, sganciandola dall’oro è di assoluta modernità, legando moneta e credito. La decisione allentò le misure restrittive sul credito fino ad allora determinate dalla convertibilità della lira, fornendo mezzi allo sviluppo.

Ciononostante al fine di contenere la perdita di valore “a cui è naturalmente soggetto il biglietto quando ha corso obbligatorio”, il provvedimento raccomandava alle banche di mantenere gli “impieghi in proporzione ristretta”. Nei fatti il credito fu il motore della crescita.

Firenze, Via dell’Oriolo 39, già Sede della Banca Nazionale nel Regno d’Italia, dal 1893 Sede Fiorentina della Banca d’Italia

La Banca Nazionale fu una specie di ircocervo, mezzo pubblica, mezzo privata, con interesse a entrare in ogni affare. Il suo mentore Bombrini la plasmò, senza rinunciare a operazioni di natura speculativa. Fu il nucleo primigenio della Banca d’Italia creata nel 1893.

Quando la Direzione Generale sarà trasferita a Roma, resterà in città uno dei più bei palazzi in stile neo rinascimentale, con il gioiello di una scala elicoidale, il cui disegno originario viene attribuito a Benevenuto Cellini.

Banca Nazionale, Scalone d’onore
Lo scandalo della Manifattura tabacchi

L’asse Bombrini, Balduino, Bastogi, le tre B come erano chiamati giornalisticamente e nell’ambiente degli affari, si stava riunendo. E ancora una volta ne nacque uno scandalo.

Il nuovo Regno d’Italia dovette infatti affrontare il nodo del Monopolio dei tabacchi, che si era palesato durante il governo Menabrea, accusato dalla corte di essere troppo spostato a destra.

Il governo del Menabrea si era concentrato principalmente sul risanamento delle disastrate finanze dello Stato, e dopo l’impopolare tassa sul grano macinato, che aveva provocato sanguinose rivolte civili, pensò di privatizzare produzione e vendita dei tabacchi.

L’otto agosto del 1868 il Parlamento approvò la concessione della fabbricazione dei tabacchi, costituendo una “Regìa cointeressata dei tabacchi”, a capitale totalmente privato.

La manifattura dei tabacchi, su cui lo Stato deteneva il monopolio, avrebbe richiesto la riorganizzazione e l’ammodernamento degli impianti di fabbricazione, ma il neo Regno d’Italia non era in grado di sostenere gli investimenti necessari.

Si decise così di dare l’opportunità a un gruppo di investitori italiani e stranieri tra i quali figuravano la Società Generale del Credito Mobiliare Italiano, il gruppo Stern di Parigi, Londra e Francoforte e il gruppo della Banque de Paris.

Il Cambray Digny era ancora in ascesa dentro al Ministero delle finanze di Quintino Sella. Il Credito Mobiliare era sempre di più la banca d’affari italiana. Ad essa il Digny accordava tutta la sua attenzione.

In sostanza, lo Stato concedeva il monopolio sui tabacchi per quindici anni a una Società anonima, in cambio di un’anticipazione di 180 milioni di lire in oro, che i privati potevano recuperare tramite l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato Italiano.

La Nazione e la Gazzetta di Firenze pubblicarono l’elenco dei finanzieri internazionali che stavano, come fu detto,  allegramente lucrando alle spalle dei poveri fumatori italiani. La manifattura di Via Guelfa venne ingrandita con nuovi locali nel quartiere di San Frediano, della cui ristrutturazione la nuova società addebito’ i costi allo Stato.

Ma non fu tutto. Ad un certo punto i vertici della società contestarono che il tabacco non ancora lavorato e depositato nei magazzini dello Stato si era deteriorato. E chiesero lucrosi risarcimenti.

Il Governo iniziava a barcollare. Lo scandalo non risparmiò nemmeno questa volta il Re. Si vociferava che anche Vittorio Emanuele II fosse entrato nel giro insieme a una dozzina di parlamentari di destra che si erano assicurati un pacchetto di obbligazioni della Regìa a condizioni assai vantaggiose.

La privatizzazione dei tabacchi fu, alla fine, un grosso buco nell’acqua e la società fallì.

Fu istituita una Commissione Parlamentare di inchiesta. Le fazioni della destra Piemontese e della maggioranza di sinistra, che si erano opposte alla costituzione della società, sollecitavano la Commissione a raggiungere una severa conclusione.

Lo Stato, secondo un intervento parlamentare del Rattazzi, aveva voluto risparmiare soldi, non effettuando gli investimenti nei macchinari necessari ai Monopoli, rinunciando a considerevoli introiti e privilegiando una società di capitalisti privati.

Ci furono due gradi di istruttoria. Uno segreto per rilevare le testimonianze e uno pubblico. Il 12 luglio del 1869 la Commissione presentò la relazione conclusiva. Gli accusati furono tutti prosciolti, nonostante che, durante i lavori, fosse stato assalito per strada l’Onorevole Lobbia, insieme a due testimoni chiave, principali accusatori dello scandalo. Nel novembre del 1869 il governo Menabrea cadde.

Le incestuose commistioni tra bene pubblico e interesse privato fecero affermare a Giovanni Lanza, deputato del Regno, che quello della Regia Tabacchi era stato “un affare scandaloso, indecente…, che può stare a fianco se non davanti a quello delle ferrovie Meridionali”.

La memoria in un cappello

Ancora avevano da venire gli anni degli scandali di Crispi e di Giolitti. Quelli della edificazione di Roma capitale e dello scandalo della Banca Romana. Firenze aveva aperto la strada agli intrecci tra politica, credito, speculazioni edilizie. E anche alla corruzione e alla impunità.

All’ex garibaldino Cristiano Lobbia, oggetto del sanguinoso agguato di Via dell’Amorino, non fu tributato nessun ricordo ufficiale, nonostante la sua dura presa di posizione nel malaffare dello scandalo dei tabacchi. Merito’ soltanto la fantasia di un cappellaio che inventò il  “cappello a Lobbia”, divenuto per molti anni il copricapo della più rispettabile borghesia.

Si trattava di un borsalino con infossatura centrale, disegnato in base alle ammaccature provocate dai colpi ricevuti dal nostro sulla testa. Cinismo, affarismo e violenza, in salsa nostrana!

Rileggendo i giornali di allora sembra di trovarsi di fronte alla trama di un romanzo di appendice, con storie di intrighi, tangenti, enormi capitali finanziari in movimento da un business all’altro. Personaggi che entravano e uscivano dalla rappresentazione, come in una pochade. Governi deboli.

Scandali di ieri e scandali di oggi

E’ la turbolenta origine del capitalismo italiano e dell’irrisolto connubio tra pubblico e privato.

Ma è anche riduttivo limitare a questi gravi episodi la nascita della nazione italiana.

Il primo decollo industriale di fine Ottocento e i “miracoli economici” degli Anni Dieci e degli Anni Cinquanta del secolo successivo mostrarono del Paese una vitalità non comune. Oggi ne avremmo bisogno.

Verrebbe provocatoriamente da tessere gli elogi degli scandali di allora, raffrontandoli a quelli di oggi, grigi, avvilenti e privi di slancio vitale. Scandali di meschine consorterie politiche, volte a ripartirsi dosi di potere contro scandali se si vuole “strategici”, intrecciati con investimenti diretti a creare valore. Non sembri un paradosso. Ma il cabotaggio degli ultimi intrecci politico-giudiziari sembrano proprio l’altra faccia del declino economico del Paese.

E poi, a ben vedere, gli episodi del passato avanti raccontati non appartengono soltanto alla storia d’Italia, ma a quella dell’Europa tutta.

Gli “spiriti animali” del capitalismo non hanno infatti confini. In quel tempo, a Firenze, ebbero modo di manifestarsi più che altrove, attirati dal fumo del tabacco e dal vapore delle locomotive lanciate a unire il Paese.

 

Previous articleLe amare sorprese delle analisi economiche strutturali
Next articleTemporale estivo in Banca d’Italia

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here