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Un principio per cui, anche se non tutte le conseguenze dell’aumento della quantità di anidride carbonica ( CO2) nell’atmosfera sono rigorosamente precisate, i danni potenziali sono così grandi da obbligare ad un severo controllo delle emissioni.
Al protocollo di Kyoto mancava tuttavia l’adesione degli Stati Uniti e non erano obbligate a rispettarlo né la Cina né gli altri paesi allora definiti in via di sviluppo. Non vi aderivano perciò alcuni tra i grandi “inquinatori” della nostra atmosfera.
Le sue conseguenze positive non potevano perciò che essere limitate. Col passare del tempo la coscienza collettiva ha preso ulteriormente atto della drammaticità del problema e si è infine arrivati al già menzionato accordo di Parigi che prevedeva una programmata diminuzione della produzione di emissioni clima-alteranti (soprattutto CO2) in modo da contenere la crescita del riscaldamento globale.
A quasi quattro anni dalla firma del “grande” accordo dobbiamo invece constatare che il mondo si muove in direzione opposta rispetto agli obiettivi sottoscritti a Parigi. Nei giorni scorsi l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha pubblicato un rapporto in cui si legge che, nel 2018, i consumi di energia nel mondo sono aumentati del 2,3% rispetto all’anno precedente: il maggiore incremento dell’ultimo decennio.
Dato che le fonti fossili rimangono dominanti, le emissioni di CO2 sono addirittura cresciute dell’1.7%. Nello stesso rapporto è scritto che gli investimenti nella produzione di energie rinnovabili sono calati per il secondo anno consecutivo, mentre sono cresciute le risorse impiegate nel petrolio e nel gas.
Oggi, sul totale degli investimenti, i 2/3 si dirigono verso gli idrocarburi e solo 1/3 verso le energie rinnovabili.
Il tutto mentre il progresso tecnologico ha prodotto un vero e proprio crollo dei costi di produzione delle energie rinnovabili: dal 2010 al 2018 il costo del solare è calato del 75% e quello dell’eolico del 20%.
Può sembrare quindi un paradosso che, nonostante questo, la diffusione delle energie alternative non guadagni terreno rispetto alle risorse più inquinanti.
La spiegazione di questo apparente paradosso è duplice: da un lato il sole e il vento sono per definizione intermittenti e richiedono perciò che accanto a queste fonti ne siano operative altre (principalmente gas naturale) pronte ad intervenire nel momento in cui le fonti intermittenti non possono produrre energia. A questo si aggiungono investimenti più costosi del previsto dovuti alla necessità di un radicale cambiamento delle linee di trasmissione verso i centri di consumo. Altrettanto importante risulta il fatto che il peso dei sussidi alle energie rinnovabili, proprio in conseguenza della loro rapida diffusione iniziale, è diventato socialmente insopportabile nonostante il calo dei costi.
La politica della conversione energetica si è dimostrata molto più difficile del previsto anche in paesi che avevano scelto la via di una politica “virtuosa” come la Germania. Di fronte alle proteste sociali provenienti da un’area del paese particolarmente depressa il governo tedesco ha dato infatti via libera alla costruzione di una centrale elettrica alimentata a lignite, un combustibile ancora più inquinante del carbone.
Mal poste sono inoltre, a questo proposito, le speranze sulle positive conseguenze della diffusione dell’auto-elettrica. Ottimo rimedio per abbassare l’inquinamento delle città, ma del tutto neutrale riguardo alle emissioni di CO2, che dipendono dalla fonte di energia usata per azionare le batterie che muovono l’auto elettrica.
A questo punto la speranza è che ulteriori progressi tecnologici, come la possibilità di “sequestrare” sotto terra l’anidride carbonica, facciano riprendere velocità al cammino delle energie “pulite”.
Oggi dobbiamo tuttavia ammettere che anche gli accordi solennemente sottoscritti non vengono poi rispettati se, mancando la convenienza economica a metterli in pratica, non vi è un’autorità superiore che ne obblighi il rispetto. Ed è chiaro che quest’autorità non c’è e che, date le recenti evoluzioni politiche, quest’autorità non ci sarà nemmeno nel prevedibile futuro.
Il destino del pianeta dipenderà quindi sempre di più dalle sole regole della convenienza economica. Il che non è certo una prospettiva rassicurante. Ed ancora meno rassicurante è constatare che questo problema non è stato affrontato da nessuno nelle campagne elettorali delle recenti elezioni europee. La nostra democrazia, ancora una volta, non sembra essere in grado di prendere le decisioni che implicano sacrifici immediati, anche se questi sono necessari per garantire il nostro futuro.