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Stupisce la quantità di commenti sul banking che attraversano i media in questi giorni. Molti gli eventi, cui è stata riservata grande attenzione.
La governance della Banca d’Italia intaccata da dimissioni e mancate riconferme. I pagamenti elettronici, in cui l’Italia, secondo alcuni, starebbe agevolmente recuperando ritardi abissali. La sentenza della Corte di Giustizia UE che spazza via l’accusa di aiuti di Stato nel salvataggio delle banche.
Colpisce il sincronismo e l’unanimità delle dichiarazioni. Scegliamone alcune che ci sembrano di particolare interesse. Sul Corriere si inneggia alla vittoria della Banca d’Italia per la sentenza delle Corte. Altri si dilungano sulle virtù di chi, come il dr. Rossi, decide, novello Cincinnato, di ritirarsi per dedicarsi all’insegnamento dell’educazione finanziaria. Il presidente dell’ABI chiede a gran voce le dimissioni del Commissario Europeo alla Concorrenza, colpevole della sentenza Tercas di alcuni anni fa. Il presidente della Popolare di Bari annuncia azioni legali di ristoro contro la Commissione per la stessa sentenza.
In altri tempi avremmo parlato di lobby e del potere di influenzare le vicende economico finanziarie italo-europee.
Oggi ci pare invece di assistere a un confuso vociare, degno della famosa commedia di Shakespeare Le allegre comari di Windsor. Tra la burla e la seriosità, gli attori si affrontano e agitano l’opinione pubblica con questioni rilevanti, dichiarando di aver avuto ragione da sempre.
Forse dimenticano qualche profilo altrettanto importante.
Il più importante dei quali è che la sentenza della Corte UE non fa certo risorgere le innumerevoli banche fallite.
Si potevano salvare altre banche per effetto della decisione della Commissione ora annullata dalla Corte? Certo che no. Fallite erano e fallite sarebbero rimaste, a prescindere. Posizione favorevole o non favorevole della Commissione.
Tanto meno, l’economia, verso la quale l’offerta di credito si è negli ultimi anni drasticamente ridotta, avrebbe potuto riprendersi.
A tale proposito, riportiamo quanto si legge sul sito di Bankitalia, in risposta alla seguente domanda sulle banche messe in risoluzione a fine 2015.
“Perché per le quattro banche non è stato possibile realizzare un intervento volontario da parte del sistema bancario analogo a quello ora attivato per Tercas?”
Risposta:
“Il FITD ha avviato la costituzione di uno schema – parallelo a quello obbligatorio – aperto alla partecipazione “volontaria” delle banche, al fine di risolvere ex post il caso Tercas. I lavori di costituzione dello schema sono iniziati il 22 novembre 2015 e sono terminati il 25 gennaio 2016. Lo schema è dotato di una capacità di intervento di 300 milioni, all’incirca pari a quanto già trasferito dal FITD a beneficio di Tercas e ora da restituire al FITD stesso in base a quanto richiesto dalla comunicazione della Commissione europea. Per le quattro banche poi poste in risoluzione non è stato possibile al sistema bancario raccogliere al suo interno il necessario consenso a mettere insieme una somma molto maggiore”.
Ognuno tragga le proprie conclusioni da questa eloquente ammissione circa le prospettive di continuità di quei campioni bancari. Il sistema le aveva ormai abbandonate al loro irreversibile destino.
Forse l’onere di un parziale ristoro per obbligazionisti e azionisti si sarebbe spostato da qualche altra parte. In definitiva, però, chi paga è sempre il contribuente o il risparmiatore, quando una banca fallisce. Spesso la filiera della sorpresa è lunga e articolata, ma il risultato non cambia.
Un esempio chiarificatore? Dalla stampa di qualche tempo fa riferita al recupero degli oneri sostenuti per la costituzione del Fondo Nazionale di Risoluzione delle crisi bancarie leggiamo:
“Tre principali gruppi bancari italiani hanno scaricato la spesa sui clienti già dallo scorso anno. I primi a spalmare i costi del salvataggio sono stati Ubi e Banco Popolare. Unicredit, dal suo canto, ha innalzato i costi di alcuni profili di conto corrente, pur negando che, una simile manovra, sia collegata alla crisi degli istituti di credito. Il Banco Popolare sta informando i correntisti (che potranno recedere) che sarà imposta una tassa una tantum di 25 euro da pagarsi a fine dicembre. “Ci siamo trovati a dover pagare 152 milioni di euro circa al Fondo di Nazionale di Risoluzione (che, in caso di default, copre il singolo correntista fino a 100mila euro), rispetto alle poche decine di milioni che versavamo abitualmente. Abbiamo preferito affrontare con chiarezza la situazione piuttosto che inserire dei costi nascosti tra le righe dei contratti” ha fatto sapere l’istituto veronese.”
Ci sembra anche questa una descrizione definitiva.
Sugli altri due temi richiamati in premessa non intendiamo in questa sede annoiare ulteriormente il lettore.
Circa la posizione occupata dal paese nei servizi di pagamento diversi dal contante, rimandiamo ai tanti interventi su questa piattaforma.
Come pure sulla questione del vulnus che sarebbe stato inferto, secondo alcuni media, all’autonomia e alla indipendenza della Banca d’Italia in materia di nomine.
Triste per il nostro Paese ridursi a un circolo di comari ora lamentose, ora pronte a darsi di gomito per recuperare posizioni, senza accorgersi delle scomode verità del nostro sistema.
Tra tutte, una in particolare emerge. Dopo la storia bancaria degli ultimi anni, quale sarà il futuro del sistema? Di questo nessuno sembra troppo occuparsi. Riavvolgere la storia all’indietro è un’ operazione inutile, salvo per ricordare come sono andati i fatti.