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I camei di Franz K.
“Da Kafka”
Il momento più vicino di Franz Kafka a traferirsi in Israele fu quando pensò, con la sua ultima amante, Dora Diamant di aprire un ristorante a Tel Aviv. Lei avrebbe cucinato e lui servito ai tavoli. Purtroppo, la tubercolosi lo colpì a Praga nel giugno 1924, prima che il “Da Kafka” potesse aprire i battenti. Specialità? Sicuramente, “capro espiatorio allo spiedo”.
Nel 1939 l’amico di Kafka, Max Brod, fuggì dalla Cecoslovacchia occupata dai nazisti per la Palestina con una valigia che conteneva la maggior parte dei manoscritti dello scrittore praghese. Un patrimonio unico: c’erano i romanzi incompiuti Il processo, Il Castello e America, insieme a diari, quaderni e corrispondenza varia.
Alcuni decenni dopo, il contenuto della valigia di quel rifugiato ha prodotto una serie di cause legali molto aspre. Infatti la questione sulla proprietà dei manoscritti di Kafka ha percorso tutto l’iter giudiziario fino alla Corte Suprema d’Israele a cui il caso è arrivato nel 2016.
C’è poi tutta la complessa e dibattuta questione del rapporto di Kafka con la cultura ebraica e di quanto la sua formazione in una famiglia ebraica abbia condizionato le sue opere.
La valigia di Max Brod
Kafka ha pubblicato poco in vita. Il romanzo La Metamorfosi e alcune raccolte di racconti sono comparsi in riviste letterarie.
I suoi estimatori sanno che possiamo leggere gran parte di ciò che ha scritto solo grazie a un atto di tradimento perpetrato dal suo migliore amico.
Prima di morire, l’autore ebreo di lingua tedesca che viveva in una città ceca aveva incaricato il devoto Brod di bruciare tutte le sue carte, scrivendo in modo perentorio: “senza leggerle e fino all’ultima pagina”.
Per Brod, invece, la disobbedienza a quell’ordine era il maggiore atto di lealtà verso l’amico. Già nel 1939 l’incarico di esecutore testamentario delle volontà Kafka aveva dato a Brod fama mondiale. In Germania, aveva attirato invece l’ira vandalica dei nazisti.
Passata la guerra, Brod, che all’epoca viveva da tempo nel neonato Stato di Israele, non riuscì a rianimare la sua carriera letteraria. La sua fama però prosperò ancora una volta come il custode della “fiamma di Kafka”.
Il suo intenso lavoro intorno all’opera del grande scrittore ha avuto come conseguenza, come dice Balint, che “il Kafka che conosciamo è una creazione di Brod”.
La sua compagna, Esther Hoffe, anch’ella immigrata da Praga, aiutò Brod nel suo lavoro. Alla morte nel 1968, Brod lasciò in eredità ad Ester le sue cose, inclusi i preziosi documenti di Kafka. Allo stesso tempo Brod dispose, in modo sibillino, che il patrimonio delle carte di Kafka entrasse a fare parte di un “archivio pubblico”.
Se Israele vuole Kafka
Questa volontà era destinata ad alimentare ogni tipo di lite legale. Dopo una scaramuccia nel 1974, le liti raggiunsero vette di assurdità kafkiana, soprattutto dopo che Esther, nel 2007, lasciò l’inestimabile eredità alla figlia Eva, una dipendente in pensione di El Al.
I tedeschi, nella cui lingua Kafka aveva scritto tutte le sue opere, divenendo un esempio preclaro dell’uso letterario della lingua di Goethe, rivendicavano invece l’universalismo dell’opera. I tedeschi, suggerisce Balint, hanno voluto affermare la priorità dell’ “universalismo europeo sul particolarismo israeliano”.
Come sappiamo il rapporto di Kafka con la cultura ebraica era molto problematico e fonte d’angoscia, anche se indubbiamente le sue radici sono in quella cultura.
Non era osservante, ma parlava Yiddish, una lingua che usava spesso anche nei suoi scritti. Anche il dibattito sull’ebraismo di Kafka è molto controverso. Per esempio lo studioso marxista Lukacs, che ha una considerazione enorme dell’opera di Kafka, scrive che “Kafka è un ateo che non concepisce l’allontanamento da Dio come liberazione, ma come il trionfo della desolazione”. E questa angoscia alimenta la sua opera e la rende di una modernità sconcertante.
Un epilogo impossibile
Balint nel suo libro descrive la vicenda giudiziaria delle carte di Kafka e intercala nella narrazione scene dai processi con episodi della biografia e dell’eredità culturale di Kafka.
Egli mette in evidenza il paradosso di una vicenda giudiziaria che ha cercato di mettere in rapporto il più ambivalente tra gli autori, l’ultimo paria senza alcuna filiazione, a un’identità fissa.
Balint ammette che Kafka potrebbe aver anche flirtato con il sionismo. Nel 1914, però, lo stesso Kafka scrisse kafkianamente: “Che cosa ho in comune con gli ebrei? Non ho quasi nulla in comune neppure con me stesso”.
Le dispute sulla sua ebraicità o sulla sua germanità, sono diventate l’acqua che muove un mulino legale a lenta levigatura. Si cercano chiarezza e certezze in una mente che, nella letteratura e nella vita, spesso “vacillava sulla soglia di ogni azione”. Alla fine, in sede giudiziaria, ha prevalso la Biblioteca Nazionale d’Israele. Eva Hoffe ha denunciato il verdetto come una violazione del diritto.
Lali Michaeli, un poeta israeliano, merita l’ultima parola sulla vicenda. “Dal mio punto di vista — ha osservato — visto il talento ultraterreno dello scrittore, i manoscritti di Kafka dovrebbero essere mandati sulla luna”.