In questi giorni, l’articolo con il numero maggiori di viste (2500) è stato Mestieri poco noti. Ispettori o sbirri? Così pubblichiamo volentieri questo scritto, che abbiamo ricevuto in forma anonima. È un divertente seguito.
Tempo di lettura: tre minuti. Test leggibilità ***.
L’esercizio del potere in azienda si manifesta in vari modi, ora più grossolani ora più raffinati. Talvolta sono crudeli, talaltra grotteschi e ridicoli.
Con il suo Fantozzi, Paolo Villaggio ha creato una tragicomica maschera moderna, raccontando gli episodi di prevaricazione e di subordinazione che avvengono negli uffici e nei corridoi aziendali.
Di casi come quello che mi capitò all’inizio della carriera, non mi sembra però che nei suoi libri vi sia traccia. Quando ci ripenso, ne sorrido ancora.
Un mestiere particolare
Dovete sapere che ho fatto per anni l’ispettore di vigilanza sulle banche. È un’attività poco nota al grande pubblico. Se ne parla raramente, resta quasi avvolta nel mistero. È difficile e delicata. Le banche la temono. Eppure chi la svolge é uomo tra gli uomini, fatto di carne, sentimenti, idee e opinioni, come tutti. Non voglio essere melodrammatico e proseguo subito con la narrazione.
Il nostro lavoro si concludeva allora con la revisione del rapporto da parte di un collega di grado più alto e più esperto. Egli sottoponeva ad una specie di prova da stress l’elaborato, per verificare la qualità del lavoro fatto, eliminare le contraddizioni, dare uniformità allo scritto anche sotto il profilo formale. Era una fase dialettica, in cui potevano scatenarsi conflitti e liti anche memorabili, fino a portare alla rottura di amicizie tra colleghi. Talvolta non era facile trovare il punto di sintesi e licenziare rapidamente il report in versione definitiva. Ciò, per procedere con la firma finale del Signor Governatore e, dopo alcuni giorni, con la consegna alla banca ispezionata.
Per noi più giovani era un momento di tensione. Il revisore manifestava subito riserve sul tuo testo, non era soddisfatto delle verifiche ispettive compiute, diceva che il pensiero non era espresso in modo chiaro. Ti metteva a disagio. Si scioglieva il nostro, solo quando cedevi e passavano integralmente le sue tesi. Tu inghiottivi amaro. Il lavoro era alla fine varato e te ne andavi sollevato soltanto perché era finito. Questo era, all’incirca, quello che accadeva.
Così la prima volta in cui mi sottoposi all’esame, avvertito da altri colleghi, mi ero fatto un po’ di anticorpi per resistere alla meglio alla “messa in stato d’accusa”. Ero insomma timoroso, ma mi ero anche preparato a rispondere a domande volte a controllare l’attendibilità delle mie valutazioni.
Comportamento imprevisto
Invece, letto d’un fiato il mio lavoro, ecco il revisore aprirsi a congratulazioni e apprezzamenti. Quasi entusiasta, diceva che era tanto che non vedeva un rapporto così ben fatto, chiaro, efficace. “Questo lavoro è davvero un gioiellino”. Concluse: “Mi complimento con te, specie per essere alla tua prima esperienza.”
Io, riappropriatomi delle mie sicurezze, mi predisposi con la massima disponibilità alle minime modifiche da fare al testo. Ero orgoglioso di me, per aver messo a fuoco aspetti positivi e carenze della banca con equilibrio, approccio professionale, chiarezza di linguaggio. Mi dicevo. Nel merito l’indagine che avevo svolto era complessa, ma della situazione avevo disegnato un quadro fedele. Mi gongolavo, compreso del mio lavoro.
“Permettimi” disse il mio interlocutore, “di fare davvero pochissimi interventi di forma, per una migliore scorrevolezza del testo. Qui cambio questa parola. D’accordo, vero? In luogo di questa frase che contiene una proposizione ipotattica, subordinata, intendo, metto due paratattiche. Coordinate. È più immediato. Ecco due virgole, giusto per circoscrivere meglio questo inciso. Un piccolo refuso, via! Eliminato. È un piacere lavorare così. Tolgo una parola ripetuta e anche un’assonanza. Sai, in una prosa tecnica, non suona bene come in una poesia. Ma resta tutto com’è, eh! Come hai scritto tu. Bravo!”
E mentre operava velocemente sulla tastiera del computer, gli occhi sullo schermo, io dall’altra parte del tavolo seguivo con attenzione ogni sua parola. Lui continuava a battere sui tasti, con rapidità e leggerezza. Non avevo bisogno di discutere per difendere una frase, un giudizio. Non c’erano depennamenti da subire. Mi ero del tutto rilassato.
Quando ebbe salvato il testo, egli allontanò la sedia dalla scrivania, per un ultimo sguardo allo schermo. “Ecco è finito. Perfetto. Lancio una stampa. Io debbo andarmene subito. Leggi il tutto e domani, lo firmi e lo licenziamo. Ciao.” E se ne andò in tutta fretta.
La macchina delle fotocopie mi restituì in una manciata di secondi il mazzo dei fogli. Lo presi e lo misi in borsa. Li avrei letti a casa, per essere pronto alle incombenze dell’indomani.
Dopo cena, in poltrona cominciai. Pensai subito di aver ritirato dalla macchina, per sbaglio, fotocopie di altri. Poi, un po’ alla volta, cominciarono a venirmi dubbi e trovai qualche inequivocabile conferma. Era il mio lavoro, ma era del tutto diverso. Sbarrai gli occhi, non volevo crederci. L’ordine dei paragrafi cambiato, passaggi cassati, valutazioni di minor peso diventate le più importanti, quelle di maggior portata derubricate. Era tutt’altra descrizione della banca rispetto a quella che avevo fatto io. Non mi capacitavo. La rabbia saliva. Stavo diventando furioso. Come aveva potuto? Come si era permesso, il mio revisore di violentare così il mio lavoro, mentre si sprofondava in complimenti? Mi sentivo doppiamente ferito.
Mi calmai. Ricominciai la lettura. Mi tornò in mente mentre lavorava con la massima naturalezza al testo, senza che io potessi accorgermi della natura dei suoi interventi correttivi.
Pertanto, lima qua, gratta là, piccona con decisione questo paragrafo, martella con grazia l’altro, sostituisci un termine, metti tra parentesi una frase, accorcia il periodo, elimina ridondanze, ripetizioni e assonanze, il rapporto finale veniva fuori rivoluzionato.
Eppure, a ben vedere, non era affatto peggiore. Era addirittura migliore, mi accorgevo rileggendolo. Seguiva una logica più stringente, era scritto con linguaggio più appropriato. Esaustivo e sintetico, allo stesso tempo. In definitiva, era anche più aderente alla situazione effettiva della banca.
Subentrò quasi un senso di ammirazione. Mi convinsi delle sue capacità professionali. Il “gioiellino” era stato riforgiato con grande maestria.
L’ultimo dilemma
Mi restava un dilemma. Che cosa fare l’indomani. Ribellarmi, protestando, per quella manipolazione. Lottare per ottenere di ripristinare qualche frase alla quale mi ero affezionato. Forse qualche risultato l’avrei pure avuto.
Decisi invece di mangiare la foglia, fingendo che nulla fosse successo. La mattina seguente, davanti a lui, firmai il “mio nuovo” rapporto in silenzio. Poi lo salutai, senza nemmeno ammiccare alla sua astuzia.
L’ ho incontrato dopo molti anni quando era ormai in pensione. Mi riconobbe subito e “Non sai, mi disse, quanto apprezzai allora la tua intelligenza. Far finta di nulla davanti a quella mia provocazione. Ma non ti conoscevo e non potevo sapere le tue reazioni se avessi cominciato a discutere ogni frase, a mettere in dubbio ogni tua affermazione. Ogni passaggio. Perché diciamolo pure. Il tuo rapporto era davvero illeggibile. Quindi decisi di fare così, contando sul fatto che mi eri parso un tipo sveglio. E non mi sbagliavo”.
Rise e aggiunse: “Nel nostro mondo di burocrati, prendere la penna per correggere il lavoro di un altro è manifestazione di potere. Talvolta é intelligente, talvolta subdola e stupida. Può essere psicologicamente violenta. E forse anche inutile e costosa. Da allora mi sono imposto di intervenire il meno possibile sui testi altrui, se proprio non era indispensabile. Fantozzi questo tipo di potere non l’ha mai considerato. Io sono convinto che sarebbero uscite scene esilaranti, riferite alla nostra propensione maniacale di correggere e ricorreggere gli scritti degli altri. Noi di casi del genere gliene avremmo forniti a iosa!”
E concluse: “Oggi che sono in pensione da tempo, sono sicuro che non è più così.” Nemmeno quella volta me la sentii di contraddirlo .