Il 20 dicembre a Venezia a cura di Psichiatria Democratica si è tenuto il ricordo del grande psichiatra Franco BASAGLIA (Venezia, 1924 – 1980) a 40 anni dalla legge che porta il suo nome. La lezione che ancora rimane è che si è occupato con dedizione e carica di rinnovamento del disagio e della sofferenza che esiste intorno a noi. Non lontano da noi ma vicino a noi e forse dentro di noi. Ha aiutato ad attraversare il ponte che ci separa dalla malattia e dalla disperazione, rese più acute dai tanti luoghi comuni.
Qualche giorno prima a Viareggio a cura della Fondazione Mario Tobino, ha avuto luogo il convegno “Dalla parte del mare. Tobino e la Versilia nel Novecento”. E’ stato reso omaggio a un’altra illustre figura della psichiatria italiana: Mario TOBINO (Viareggio,1910 – Agrigento,1991) scrittore, poeta e dichiarato antagonista del medico veneziano.
40 anni fa era il 1978, l’anno in cui mi laureai. E l’anno in cui cambiò il nostro Paese: il sequestro e il brutale assassinio di Aldo Moro, la legge 180, approvata in quattro giorni, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, poi la legge 194 sull’aborto, tre Papi in 3 mesi, Paolo VI, Giovanni Paolo I e II. Gli eventi ora ricordati avranno effetti duraturi, fino ad oggi.
La 180, poi, fu la prima e unica legge che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.Ciò ha fatto dell’Italia il primo e forse unico paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici. La passione civile e l’alto consenso sociale che accompagnarano quella legge furono dovuti alle inchieste, giudiziarie e giornalistiche, che portarono alla luce le condizioni orribili in cui venivano rinchiusi i malati in grandi strutture chiuse. Due anni prima era uscito il film Qualcuno volo’ sul nido del cuculo con lo straordinario Jack Nicholson, libertario, velleitario, sconfitto. Il film aveva denunciato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale il trattamento inumano dei nosocomi psichiatrici. I tempi erano maturi per attuare una svolta radicale.
Forse oggi anche chi portò avanti e chi si oppose alla legge potrebbe raccontarci quel che avvenne, la speranza e le ragioni che animarono il dibattito e le scelte dell’epoca e quel che è accaduto dopo.
Mi sembra di vederli, Basaglia e Tobino, che ci raccontano e si raccontano.
B: Buondì Mario. Anzi Maestro. Hai scritto tantissimo e di tutto, anche per il cinema e per grandi registi: Monicelli, Bolognini, se ben ricordo.
T: Ciao Franco. Hai ragione. Ho avuto una vita lunghissima. Ho fatto molte cose.
B: Già saresti potuto essere il mio mentore e il mio professore di psichiatria, ma non ci siamo mai intesi, mai presi!
T: Oh mio Dio, Franco. Sei stato un monello irriducibile, intrattabile, un comunista rivoluzionario che metteva l’ideologia avanti a tutto. Pure alla malattia.
B: Mah! Anche tu credevi alle scemenze del tipo: Basaglia ha abolito con la legge 180 la malattia mentale e i manicomi.
T: Perchè, non era quello che volevi? Chiudere e buttare la chiave dei manicomi per sempre. Per me il manicomio era un luogo di amore e terapia.
B: La mia era una visione di una nuova organizzazione dei servizi psichiatrici sul territorio. Sono un medico, non un visionario delirante. A Gorizia istituii nel 1969 all’interno dell’ospedale psichiatrico, laboratori di pittura e di teatro e una cooperativa di lavoro per i pazienti, che così cominciarano a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. La psichiatria, che non ha compreso i sintomi della malattia mentale, doveva cessare di giocare un ruolo nel processo di esclusione del “malato mentale”, voluto da un sistema ideologico convinto di poter negare e annullare le proprie contraddizioni, allontanandole da sé. Emarginandole.
T: Ma tu sei un medico! Non un sociologo o un politico. Perchè mischiarsi in cose che non appartengono alla medicina. A Maggiano dove ho lavorato per una vita ho fatto un buon lavoro, perchè ho curato i miei matti con amore e pazienza. Se hai letto il mio romanzo del 1972 “Per le antiche scale” io ero come il dottor Bonaccorsi. Io ero lui. Abitavo in manicomio, mangiavo alla mensa con i malati, avevo una stanza dentro la cerchia delle mura. Dove avrei sbagliato secondo te? Cos’ altro potevo fare di più?
B: Vedi caro collega. Dopo una vita stiamo commettendo gli stessi errori di allora. Ricordi Totò e la sua poesia La livella. Siamo morti. Siamo seri. Lasciamo queste cose ai vivi e ragioniamo sulle cose serie. Lasciamo quindi perdere come curare la malattia. Vuoi? Ed allora dimmi cosa è per te la malattia mentale.
T: La cosa seria della malattia mentale è che dura per sempre. Anche quando sembra scomparsa è lì che ti agguanta appena può. E’ la parte oscura della luna, prima o poi si rifà viva. E’ come la cenere nel braciere. Ci trovi sempre dei lapilli ancora infuocati.
B: Finalmente, siamo d’accordo su qualcosa. Aggiungo che la normalità presunta di tanti di noi non è in grado di capire quel che accade nella persona malata. Il mondo e la nostra logica di analisi vengono capovolti. Ricordi l’Ulisse di Joyce, tu che sei stato un fine letterato? Il coraggio di vivere è stravolto. I personaggi del romanzo hanno paura ad uscire di casa nella Dublino novecentesca. Il loro coraggio è stare fermi. E’ lo stesso coraggio di Ulisse! Ma al contrario. Non c’è differenza. Se vuoi, continuo.
T: Certo, mi fa piacere sentirti.
B: Anni fa lessi che in Norvegia per orientare le navi quando entrano nelle gole buie dei fiordi in zone dove non si possono installare fari per la crudezza del territorio, c’erano delle navi-faro ancorate a pochi metri dai dirupi che precipitavano in mare. Terribile condizione d’inverno con le mareggiate che minacciavano di strappare l’ancora e sbattere la nave-faro con l’intero equipaggio contro le rocce. Ecco anche qui troviamo un concetto di coraggio che non è quello omerico dell’eroe in battaglia o in giro per mari procellosi, ma il coraggio di chi sta fermo. La loro missione è di non muoversi. E’ di stare fermi. Apparentemente non servono, eppure sono essenziali. La loro essenza è vivere, stando fermi. Ed allora, portiamoli fuori e facciamoli muovere.
T: Continua ancora. Quello che dici è affascinante.
B: Così per i malati mentali la vita è un guscio in cui non si trovano mai e il loro coraggio è combattere da fermi, sapendo che tutte le risorse che hanno, mentali e fisiche, non servono a realizzare una famiglia, un lavoro, una carriera, ma semplicemente a stare fermi per vivere. Difficile per i normali capirci qualcosa. Ed allora io non ho guardato alla malattia, ma al malato e al contesto in cui vive. E l’ho liberato dal manicomio, restituendogli la libertà e il coraggio di vivere.
T: Ma il manicomio era il mio mondo, li accudivo i matti e gli volevo bene.E tu sarai ricordato dalla storia come il medico che ha chiuso i manicomi e sarai strumentalizzato. Perché questi poveracci non sapranno mai dove andare. Perché l’assistenza esterna non sarà mai sufficiente, perché le famiglie saranno lasciate da sole a combattere contro il marasma mentale dei loro cari! Perché la politica non sarà mai all’altezza dei sogni.
B: Tu facevi così perchè hai avuto una visione eroica e romantica della psichiatria. Ma la situazione dei manicomi in Italia nel dopoguerra era terribile. Erano degli enormi lager, se ben ricordi. Sfruttavano la logica delle economie di scala. Tanti, tutti in spazi ristretti. Per economizzare. Per descriverli dovevi usare le pagine di Primo Levi su Auschwitz. Nei posti dove noi abbiamo chiuso, a Gorizia, Trieste abbiamo organizzato servizi psichiatrici sul territorio e abbiamo continuato a prenderci cura dei malati e molti sono usciti dai circuiti psichiatrici. Hanno avuto una loro vita non legata a un letto di contenzione. Utopia della realtà l’ho chiamata. Andare oltre la malattia e ridare dignità alla persona.
Vorrebbero continuare a parlare ancora. Sono depositari di esperienze umane uniche e rare. Vivendo con il dolore si impara rapidamente la durezza della vita. Si incamminano allora insieme sul ponte e svaniscono nella prima nebbia del giorno.
Mi sveglio e mi accorgo che nel sogno avevo assistito al loro incontro. Ripasso mentalmente quello che avevo udito, per essere sicuro di ricordare tutto. Troppo importante per me vederli insieme. Entrambi hanno messo al centro del loro lavoro l’uomo, non la malattia anche se la loro visione del mondo era radicalmente diversa. L’uomo seguito ed amato con pazienza. A distanza di 40 anni questa è la loro più grande eredità.
Quanto alla polemica sulla chiusura dei manicomi forse tutti noi ne saremmo stati convinti assertori perché erano vere bolge dantesche dove rinchiudere persone malate con l’idea di liberarsene. Per sempre!
La lettura del bellissimo ipotetico rapporto epistolare fra i due scienziati, motivati e sospinti da convinzioni cosi diverse, ma entrambi animati da buona fede, mi comporta una ulteriore riflessione sulla casualita’ che contraddistingue l’esistenza di noi uomini tutti.
Nascere e vivere in un periodo storico, secondo le teorie e le regole vigenti, secondo gli orientamenti politici riconosciuti e dominanti, non sempre riesce a stabilire certezze su quello che in assoluto potrebbe essere riconosciuto come giusto, in assoluto.
Del resto, nonostante le sperimentazioni portate avanti dalla scienza, i limiti tra pazzia e fantasia nell’estro creativo non credo che sia ancora chiaramente distinguibile nel complesso cervello umano.