Tempo di lettura: quattro minuti.
L’ultimo Rapporto Mondiale sulle Migrazioni, pubblicato nel 2018 dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), afferma che la percentuale di migranti internazionali (quindi di coloro che lasciano il loro Stato di origine per raggiungere il territorio di un altro Stato) è pari al 3.3% della popolazione globale, oggi calcolata in 7.6 miliardi di persone.
Si tratta di 250 milioni di persone, numero che ovviamente non tiene conto dei 750 milioni di individui che si spostano all’interno dei confini nazionali e che alimentano i flussi di internal migration. Tutto considerato un miliardo di persone in movimento, numero di poco inferiore agli abitanti di un intero continente come l’Africa. Tanto per dare un’idea dell’attuale portata del fenomeno.
Nel corso degli ultimi anni, i media, in particolare in seguito al terribile naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, con un bilancio di 368 morti e 20 dispersi, hanno spesso riportato notizie relative ai flussi migratori internazionali in modo poco corretto, alimentando confusione e incertezza e prestando poca attenzione alle norme di diritto rilevanti.
Il grande assente
Nel dibattito sulle migrazioni molto spesso il grande assente è proprio il diritto internazionale pubblico che regola non solo i rapporti tra Stati, che restano comunque titolari del diritto di regolare l’ingresso e la permanenza dei cittadini stranieri e apolidi nel proprio territorio, ma anche, nella sua connotazione più nobile e recente, i rapporti tra gli Stati e gli individui posti sotto la loro giurisdizione.
Il termine diritto internazionale delle migrazioni si riferisce alle norme di carattere sovranazionale che governano i flussi migratori. Si tratta, a differenza di altre aree del diritto internazionale, di un regime che non è ben definito, ma che al contrario ha natura trasversale e si interseca con diversi ambiti specialistici, per esempio i diritti umani, il diritto internazionale umanitario, il diritto internazionale del lavoro e così via.
Gli aspetti più problematici sono sicuramente rappresentati dalla frammentarietà del quadro normativo vigente e dall’assenza di un trattato vincolante che regoli i fenomeni migratori. In relazione a questo punto, la complessità del tema e gli interessi in gioco rendono particolarmente difficile ogni tentativo di negoziare un documento vincolante.
Il Global Compact for Migration
Tali difficoltà sono inoltre emerse anche relativamente all’adozione di documenti di soft law (quindi incapaci di creare in capo agli Stati obblighi legali). In particolare ciò riguarda il Global Compact for Migration, cioè il piano globale per fronteggiare i problemi connessi con le migrazioni, che le Nazioni Unite stanno cercando di concludere nonostante i ripensamenti degli Stati Uniti, ma anche di numerosi paesi europei quali Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Austria, Bulgaria, Svizzera e Italia.
La Dichiarazione di New York sui Rifugiati e i Migranti del 2016 è il documento che ha gettato le basi del Global Compact for Migration, che ci si augura, verrà formalmente adottato nel corso del summit di Marrakech, in programma fra pochi giorni (10 e 11 dicembre 2018).
La Dichiarazione era stata firmata da tutti i 193 membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e diffondeva un messaggio di speranza e umanità nei confronti di tutti coloro che, per motivi diversi, si spostano da un Paese all’altro in cerca di protezione internazionale o di condizioni di vita migliori.
A differenza della Dichiarazione di New York, il Global Compact si concentra solo sui migranti internazionali, tracciando, almeno in linea di principio, una distinzione piuttosto netta tra migranti e rifugiati.
Tale distinzione è fondamentale dal punto di vista giuridico poiché la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati specifica che il rifugiato è colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese…”.
Confusione di termini
Tuttavia, alcuni attori politici, media e organizzazioni internazionali (tra cui spicca l’OIM) interpretano ed utilizzano la parola migrante come termine generico che comprende sia migranti sia rifugiati, soprattutto ai fini di stilare statistiche globali sulle migrazioni internazionali.
In che modo il termine migrante viene quindi definito nel diritto vigente?
Ovviamente, l’assenza di un trattato comporta anche la mancanza di una definizione condivisa dalla comunità internazionale; ciononostante, è possibile individuare varie definizioni in ambiti diversi.
La definizione più ampia è sicuramente quella utilizzata dall’ OIM, secondo cui: “un migrante è una persona che si sta muovendo o si è mossa attraverso un confine nazionale o all’interno dei confini di uno Stato e che pertanto si sta allontanando dalla sua residenza abituale, indipendentemente da: 1) lo status legale della persona, 2) se il movimento è volontario o involontario, 3) quali sono le cause del movimento, 4) la durata della permanenza nello Stato di arrivo”.
La definizione più restrittiva invece è quella contenuta nella Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, entrata in vigore nel 2003 e ratificata solo da 54 Stati, tra cui non compare l’Italia. Secondo la definizione di “lavoratore migrante” presente nella Convenzione questo termine si riferisce a “una persona che sarà occupata, è occupata o è stata occupata in un’attività remunerata in uno Stato del quale non è cittadino”. Il testo della Convenzione chiarisce che la stessa non si applica, tra l’altro, a rifugiati e richiedenti asilo.
La poca chiarezza terminologica ben si sposa con l’approccio poco uniforme e in molti casi poco rispettoso degli standard dei diritti umani, che gli Stati, non solo quelli più interessati dai fenomeni migratori, hanno adottato per reagire alle migrazioni “non pianificate”, o, più brutalmente, “indesiderate”. E soprattutto alimenta le sempre più radicali differenze di posizione, senza strategicamente preoccuparsi della sostenibilità nel tempo delle contrapposizioni ad un fenomeno di tale rilevanza.
Si comprende, quindi, per quale motivo il Global Compact for Migration, pur non essendo un trattato vincolante, è essenziale per stimolare gli Stati a lavorare insieme su questi temi ed eventualmente raggiungere un accordo che parta dalle definizioni e arrivi alle risposte concrete che la gestione corretta ed adeguata dei flussi migratori richiede, anzi, a questo punto reclama.
È anche il modo di tentare di uscire dalle folle di disperati senza volto e senza nome alle quali il nostro periodo storico rischia di restare indissolubilmente legato.
Quanto all’Europa, nella sua posizione di frontiera e di cerniera, questo bisogno di civiltà giuridica nasce dalla sua lunga e radicata cultura e deve farle evitare la condizione di Bertold Brecht: “ci sedemmo dalla parte del torto, poiché tutti gli altri posti erano occupati”.
* Francesca Capone è ricercatrice di diritto internazionale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
L’articolo fornisce elementi chiari sulla problematica cavalcata dal “Ministro della Paura” che basa le sue fortune attuali sulla demagogia e sulla speculazione che riguardano tutta la tematica migratoria. Mantenere atteggiamenti ambigui consente, infatti, di assumere posizioni variegate e utili alle speculazioni che alimentano le fobie della gente!