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E’ possibile “recensire” il lavoro dell’uomo? Cioè dare una rappresentazione complessiva e critica della sua condizione, delle sue lotte, delle sue conquiste, delle sue tragedie, del suo futuro, che non siano stereotipe e di maniera, ma evocative ed emozionali? E con quali strumenti poi? La saggistica dotta, le celebrazioni enfatiche, le dichiarazioni retoriche, le promesse della politica, le cronache drammatiche, le statistiche opprimenti?
Noi abbiamo scelto immagini tratte dall’ars pittorica e da quella fotografica che ci coinvolgono empaticamente, per lasciarci senza respiro. Una riflessione sulla fatica dell’uomo e sulla mancata etica del suo rispetto. Lo facciamo con episodi tratti dal passato. Parlano di lavori oggi fortunatamente scomparsi, lontani nel tempo, quasi irreali, anche se analogie con il presente ci vengono alla mente.
C’è un elemento che accomuna la rappresentazione dei lavori fisicamente faticosi. Ed è il silenzio. Si svolgono nel silenzio. La fatica non vuole il logos. Ognuno è solo, nella gabbia dello sforzo che abbrutisce e isola dagli altri. È la condanna al silenzio, alla rinuncia alla parola, il vero anatema biblico dell’uomo obbligato al lavoro?
Due racconti per immagini
Ecco due narrazioni diverse per linguaggio, strumenti, approfondimenti, collegamenti, riferimenti. Eppure così vicine nel contenuto e nel rispondere al bisogno del racconto, che ci aiuta a comprendere meglio.
La prima avviene attraverso il quadro di Telemaco Signorini, intitolato L’Alzaia, la fune con la quale si trascinavano contro corrente dalla riva di fiumi e canali i barconi per il trasporto dei carichi più pesanti. È un esercizio complesso, quello del pittore Luca Alinari che, con grande fascino narrativo, ci racconta il dipinto, facendoci compenetrare nei suoi messaggi non soltanto estetici e tecnici, ma anche psicologici, sociali, storici.
La seconda è una serie di fotografie, senza commento, drammatiche, dedicate dal fotografo Salvatore Clemente al cimitero dei bambini (ab)usati per trasportare zolfo estratto dalle miniere siciliane. Una storia poco nota di sfruttamento che ci lascia attoniti per stupidità e crudeltà, con la tragedia finale della esplosione della Zolfara di Gessolungo (Caltanissetta) del 1881 e la morte dei tanti Carusi lì schiavizzati. Una storia narrata con sensibilità e pudore, cui la critica fotografica ha riconosciuto non solo valore estetico, ma soprattutto significato di educazione sociale.
Il progresso, con la moderna retorica del lavoro 4.0, ha eliminato i lavori duri e pericolosi? Purtroppo no! Come ci ricordano ogni giorno le morti sul lavoro di mestieri fatti senza sicurezza, spesso in nero, che pongono l’Italia ai primi posti in questa classifica di inciviltà. Le statistiche INAIL e ISTAT parlano di 13 mila morti negli ultimi dieci anni.
Come non si sono ridotte le distanze sociali, che la crisi ha anzi accresciuto, così nessuna politica del lavoro è riuscita finora ad allentare, come vorremmo, le nostre moderne “alzaie”.
Buona riflessione a tutti!