Riceviamo e pubblichiamo volentieri da Andrea Manzi, giornalista, scrittore e Direttore del quotidiano SALERNOSERA che troverete on line dal prossimo 1 dicembre.
Rosario Bonavoglia torna in libreria con un labirintico noir psicologico: IL CAPOBRANCO per l’editore Lupetti. Nel racconto lo studio dei “tipi” e la bipolarità sorprendente del carattere dei protagonisti sostengono, e talvolta sopravanzano, l’incalzare della storia. L’atmosfera introduttiva, quasi paralizzante, afferra come in un vortice i pensieri del lettore: un’ondata di neve blocca le vie di comunicazione, isolando l’Oasi della Quiete, un albergo dell’Alta Sabina, dove dodici amici (quattro coppie e quattro donne) si ritrovano per salutare il nuovo anno. Ciascuno di essi, svezzato dalla routine consumistica, vive la banalità del male sulla superficie dell’esistenza, scivolando su affetti e sentimenti, senza preservarne alcuno, tanto meno nel cuore. Tutti si credono amici, senza sospettare di non esserlo stati mai. Una comune passione per i cani li ha fatti inizialmente incontrare: l’adesivo cinofilo, unico marchio affettivo dei loro sospettosi e perversi legami, li ha uniti nell’Arca, una clinica veterinaria dove le giornate si consumano tra vaccini, visite, tosature e labili sottintesi.
Si tratta di un mondo anestetizzato dalla consuetudine, da rapporti falsati che si risvegliano durante le ore dell’attesa eccitata per la festa di fine d’anno, rivelandosi all’annuncio di una tragedia: dall’Oasi della Quiete non tutti torneranno a casa. In un incalzare di flashback esplorativi e rivelatori – con percorsi di taglio psicologico cui l’autore non è nuovo – il destino di alcuni personaggi sarà a mano a mano svelato attraverso la ricostruzione investigativa. Vengono così alla luce realtà nascoste, con aspetti inediti e insospettabili, delle loro personalità e delle loro vite, conferendo a ciascuno di essi un nuovo, inquietante identikit. È la verità dei momenti solenni che emerge dall’angoscia di circostanze tragiche, di un tempo esaurito e, presumibilmente, finale.
È la vita che, d’improvviso, dismettendo gli abiti della parvenza, si decostruisce, si sconnette, si liquefa “a bagno nel linguaggio” direbbe Lacan, esigendo che le parole, progressivamente, si trasformino in verità autentiche e pietrificate. Il male soffoca la contemporaneità e, in questo affresco di Bonavoglia, affiora come una “messa alla prova” ultimativa di uomini e donne. In un linguaggio sorvegliato e utilmente guardingo, emerge pian piano la più cupa delle colpe, il tradimento, che diventa la reale unità di misura dell’intimità di questo gruppo, presentato inizialmente come una comitiva “normale” ma in realtà logorato dal germe schizzinoso di relazioni inautentiche.
Gradualmente – nell’incalzare degli eventi – gli amici dell’Arca recuperano un’interiorità più profonda. La ferocia della loro iniziale superficialità si attenua nella chiarezza di un pensiero meno camaleontico e più nitidamente contemporaneo.
A Yuri, il capobranco titolare dell’Arca, Bonavoglia riserva un profilo netto, ritraendolo nella sua desolata espressività borghese, in rapporto alla vita inessenziale e fatua dei suoi amici. Ma anche Yuri, a sua volta, è un uomo vuoto, nascosto sotto una dura corazza: esplora, con nevrotica attenzione, le prospettive vacanziere della sua comitiva, nata sul nulla e unita dal collante di consuetudini immutabili. La accompagna nell’ultimo viaggio ma, lungi dal godere i vantaggi della propria incerta leadership, è divorato dalle fauci del destino più avverso e crudele. Nel suo carattere fragile echeggiano così le miserie di un secolo breve, interminato, nel quale la crisi delle identità, individuali e di gruppo, ha costruito le gabbie di pregiudizi e solitudini di cui siamo ancora prigionieri.
Grazie alla minuziosità descrittiva dei legami, delle abitudini e indecisioni dei personaggi del suo romanzo, Bonavoglia, a tratti, ricorda il miglior De Carlo di “Giro di vento”: seziona ed evidenzia superfluità e falsità contemporanee con profondità analitica ed emotiva, entrando nei conflitti aperti e aprendo il sipario su aree di rischio e tensione, in cui le azioni si combinano abilmente con i percorsi mentali dei protagonisti. Proprio lungo queste traiettorie si esprime la forza di questo romanzo, che non si snoda nel quadrante del “tempo minore” ma,laddove personalità, ragione ed emozioni recuperano quote di rilevante evidenza, lambisce gli strati più oscuri e nascosti della coscienza. Compaiono così scampoli di tempo assoluto, nei quali Carlo Bo riconosceva il prestigio della letteratura: uno scavo puntiglioso nella personalità dei protagonisti, che libera i volti dalle maschere imposte dalla società delle consuetudini e dei consumi, mitigando la disumanità di un mondo di plastica.
Una disumanità nata, talvolta, dalla rimozione del dolore, che produce negli uomini una mutilazione, una “mancanza d’essere”. Bonavoglia lo sa bene e recupera alla dignità del linguaggio le aree segnate da una sorta di esilio semantico nel quale le identità si liquefano. Racconta così le voci di dentro dei protagonisti, lungo un filo avventuroso che si tende fino alle pagine finali, con le rivelazioni e gli svelamenti di ciascun personaggio, senza mai allentare la tensione, costruita e costantemente ravvivata, pagina per pagina. Le parole artigliano i particolari – indugi, tensioni, odi, rancori – in un incalzare di accadimenti, nei quali i fatti vivono nella speculare coscienza dei protagonisti.
Il giallo psicologico si rivela così nella sua compiuta dinamica, la trama si scinde in filamenti di narrazione interconnessi, liberando storie individuali e di coppia di una comitiva ormai murata in unclaustrofobico castello di ghiaccio. Bonavoglia segue i suoi personaggi, senza mollarne nessuno, nemmeno nelle fasi più concitate, per poi compiere, alla fine, con un’abile manovra narrativa, il riallineamento della storia in un flusso unitario.
Il capobranco si legge d’un fiato, con la voglia di non uscire mai dai lacci fascinosi del racconto. Sensazione rara, di questi tempi, suscitata solo dalla letteratura non occasionale.