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Migrazioni, potere economico, Ronaldo e Ozil

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La disuguaglianza fra paesi ricchi e poveri nel mondo è la principale causa del fenomeno migratorio. Lo scrittore e economista Milanovic sostiene che le “differenze di luogo” hanno in buona misura sostituito le “differenze di classe”; in effetti, anche lo scontro politico si è spostato sulla contrapposizione tra chi si sente minacciato dall’afflusso dei migranti e chi propugna soluzioni improntate a criteri di solidarietà.

Comunque, c’è il settore popolarissimo del calcio in cui le regole da diversi anni sono cambiate per agevolare l’afflusso di una particolare tipologia  di “migranti” dall’estero. Ciò ha portato a far accettare senza problemi alla pubblica opinione del mondo occidentale l’impiego massivo di extracomunitari e l’assenza di giocatori autoctoni in una squadra (con buona pace di chi nel patrio suolo invoca con sistematicità “prima gli italiani!”). Insomma, la passione pedatoria è riuscita a ridurre, per certi aspetti, le pulsioni sciovinistiche, anche se le stesse sono pronte a riemergere specie dopo insuccessi sportivi (si veda, da ultimo, il caso del giocatore tedesco di origine turche Ozil che ha abbandonato la nazionale denunciando di essere vittima di “razzismo” dopo le critiche per aver posato con il presidente della Turchia Erdogan).

Con la globalizzazione diverse società di calcio europee, spesso di proprietà di soggetti stranieri, sono diventati marchi mondiali, facendo paradossalmente aumentare un altro tipo di disuguaglianza. E’ risaputo che il calcio nel vecchio continente è organizzato in modo da favorire le società più ricche che possono comprare i migliori giocatori in circolazione (Ronaldo docet) e primeggiare nei campionati nazionali e europei; le società che non dispongono di mezzi economici non hanno, salvo rarissime eccezioni, probabilità di vittoria. Al massimo sono meteore come il Leicester.

Negli ultimi anni, infatti, i principali campionati (Francia, Germania, Italia, Inghilterra, Spagna) sono dominati da poche squadre con maggiori possibilità finanziarie; il grado di concentrazione del potere sportivo già elevato  è aumentato ulteriormente (nel caso italiano, gli ultimi sette campionati sono stati conquistati dalla stessa società).

A questo punto potremmo nobilmente invocare l’adozione di normative che salvaguardino la competitività di tutti i partecipanti(sulla falsariga dei campionati sportivi americani) e azzardare che, in considerazione della vasta popolarità del calcio, un cambio di regole di governo potrebbe addirittura avere un effetto positivo non solo sportivo e sulle iperboliche spese societarie, ma anche culturale e civile.

Ma non vogliamo avventurarci su un terreno pericoloso, in cui si possono scatenare polemiche provocate da ancestrali rivalità mai sopite.

Comunque non possiamo dissimulare la frustrazione (alimentata pure dall’assenza della nazionale italiana nei recenti Mondiali) di chi – innamoratosi  fin dall’infanzia del calcio come si sarebbe “poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente” (Febbre a 90’ di N. Horby) – si trova a tifare per squadre magari belle, ma incapaci di appagare le naturali ambizioni di vittoria,  purtroppo disegualmente e saldamente concentrate nelle mani rectius nei piedi  – di poche e straricche imprese calcistiche.

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