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Il Veneto assurge alla storia economica nazionale perché nel volgere di pochi anni le crisi di tante banche, più note e meno note, cambiano in modo probabilmente irreversibile un modello di sviluppo fondato sui distretti produttivi e sulle banche del territorio. Ricorre in questi giorni un anno dalla fine ingloriosa di Veneto Banca e di Banca Popolare di Vicenza. Il Paese intero e’ dovuto intervenire per salvare una delle aree più ricche della nazione.
Quale futuro creditizio attende le nostre imprese?
Si può dire senza rischio di smentita che in Veneto la banca locale è pressoché sparita. Non è stata l’unica regione d’Italia dove la banca del territorio ha perduto posizioni, ma è senza dubbio quella dove il fenomeno è stato più rilevante. In nessun’altra area si è avuto un numero tanto alto di dissesti in così pochi anni.
Soltanto nel 2010 vi erano 57 banche con sede in Veneto: 11 erano società per azioni, 5 Banche Popolari, 40 BCC e una filiale di banca estera. Vi operavano con 2.300 sportelli su un totale di 3.600, con un peso pari al 60 per cento.
Dopo 8 anni sono rimaste in 29, di cui 22 BCC. Delle restanti sette soltanto alcune possono classificarsi banche locali. Inoltre il credito cooperativo è destinato a perdere ulteriore forza come soggetto unitario, dato che nella formazione dei gruppi voluti dalla riforma, una metà circa delle BCC aderirà al gruppo Iccrea e l’altra a quello di Cassa Centrale Trentina.
Il Veneto bancario appartiene oggi ai gruppi Intesa, Unicredit, BPM e Monte dei Paschi.
Perché è accaduto tutto questo?
Per la Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario conclusasi a fine 2017 le cause delle crisi bancarie sono: esaltazione ingiustificata delle ridotte dimensioni (piccolo è bello); forte crescita degli impieghi bancari non correlati allo sviluppo economico e governance aziendali inadeguate a fronteggiare la crisi.
Quanto al primo punto, nel 2010 il Nord Est e in specie il Veneto sono al centro di studi di alto livello, come mai era accaduto prima. L’allora Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ricevendo la laurea honoris causa al CUOA di Altavilla Vicentina (lo stesso riconoscimento era stato assegnato a Zonin nel 2005) definisce il Nordest «un’area cruciale per l’intera economia italiana, dove risiede quasi un quinto della popolazione, vi si produce un quarto del PIL del settore privato» ed «è da questa area che origina poco meno di un terzo delle esportazioni italiane».
E prosegue:
“A fronte di una maggiore varietà di prodotti e servizi offerti alla clientela, i grandi intermediari hanno un legame meno intenso con il territorio, che rappresenta invece uno dei punti di forza del tessuto di banche di dimensione media e piccola. L’ampia presenza di intermediari locali costituisce un aspetto peculiare del Nord Est, con un livello medio dei tassi di interesse più basso che altrove.”
Come ricordano le cronache dell’epoca, il Governatore conclude, affermando che: “Il legame con il territorio significa più approfondita conoscenza del cliente che nessun modello matematico può replicare. In questo modo lo si può continuare a sostenere anche quando le cifre non lo consentirebbero. Stare sul territorio significa saper far banca.”
Pochi mesi più tardi, sempre al CUOA di Vicenza, viene presentato un ponderoso studio della Banca d’Italia dal titolo “L’economia del Nord Est“, in cui si sottolineano alcuni limiti dello sviluppo economico dell’area, ma si ribadisce che potranno essere proprio le banche del territorio ad alzare un argine contro gli effetti recessivi dell’economia, stanti le più prudenti politiche di erogazione del credito delle grandi banche.
Pochi mesi prima, però, si era autorizzata l’acquisizione da parte del Monte dei Paschi della Banca Antonveneta, consegnando alla terza maggiore Banca del paese una delle più importanti realtà territoriali della regione.
Sarà quindi una vera sorpresa trovarsi davanti, pochi anni dopo, alla situazione critica avanti descritta. Nel 2016 il Vice Direttore del Corriere della Sera Federico Fubini in un articolo intitolato “Il male oscuro del Veneto… conta ben 13 piccole banche in crisi irreversibile, senza includere nell’elenco le due maggiori, Veneto Banca e Vicentina, considerate ancora in salute.
Il secondo punto rimanda a chi e che cosa hanno finanziato le banche fallite. Già all’epoca degli eventi del CUOA, qualcosa di silenzioso, come avviene in un fenomeno sismico, stava accumulando dosi crescenti di energia, che si sarebbero liberate tutte in una volta e in misura distruttiva.
Mentre la produzione industriale si ferma già nel 2008, i prestiti delle banche del territorio continuano a correre, come avevano fatto per tutti i primi anni 2000, per arrestarsi solo nel 2012. Come è stato in seguito dimostrato, in quegli anni il credito, invece che la crescita, va sempre più a sostenere i precari equilibri finanziari delle imprese e a elargire crescenti favori a un novero sempre più ristretto di clienti. È un credito che nasce ‘malato’, perché trova motivazione nel ripiegamento del modello produttivo della regione, vedendo soprattutto impegnate le banche più piccole. Come sottolinea ancora Fubini “mentre il credito alle imprese venete compie un balzo del 125% nei primi dodici anni dell’euro l’economia cresce appena del 39%”. E nessuno è in grado ovviamente di fermare il treno che corre a una velocità assurda!
Quando questi flussi creditizi si interrompono, cominciano a emergere incagli, sofferenze e perdite, in un processo che acquista velocità e che niente riesce a fermare nei successivi cinque anni.
Se la crisi del sistema imprenditoriale veneto è di natura strutturale, dovendo impegnarsi a recuperare produttività e competitività a medio termine, come possono essere le piccole banche locali ad arrestarla, considerato che, per proteggere i loro depositanti, dovrebbero, in quella situazione, diventare più selettive delle altre e non certo più lassiste?
Invece, l’abnorme crescita degli impieghi si accompagna anche a politiche espansive di gruppo, mai viste prima. Le due popolari comprano tutto quello che passa sul mercato delle banche, con i due leader incontrastati Zonin e Consoli anche in competizione tra di loro per alcuni affari, cosa che fa aumentare senza ragione i prezzi delle loro prede. Tra la fine degli anni 90 e i primi duemila fagocitano oltre 30 banche in Italia e all’estero e poi società del parabancario e compagnie di assicurazioni e centinaia di sportelli che altre banche più accorte mettono in vendita. Spesso sono banche di piccole dimensioni, tranne forse la Cassa di Risparmio di Prato, e soprattutto sono banche che non brillano per il loro stato di salute. E’ una politica effimera e miope: le due popolari venete banche di provincia erano e banche di provincia rimangono anche se affette da insanabile bulimia, come dimostra il fatto che dopo tutta questa corsa, esiziale per loro, raggiungono e superano al momento del fallimento nel giugno del 2017 a mala pena il 2 per cento in Italia e il 10 nel Nord Est, al lordo della montagne di crediti malati che accumulano. Montebelluna (Tv) e Vicenza, rispettivamente le due cittadine sedi delle popolari, mettono a rischio l’intero sistema bancario e l’intero paese pur con queste percentuali esigue obbligando lo Stato a un salvataggio onerosissimo per il contribuente.
Il terzo punto riguarda l’inadeguatezza della governance, ciò che porterà all’esplosione di tutte le contraddizioni prima evidenziate. L’incapacità di sciogliere il nodo dei tanti conflitti di interesse si rivelerà tombale.
Tra il 2012 e il 2017 gli sforzi delle due principali banche per mantenere adeguati livelli di patrimonializzazione sono ricorrenti, con ripetuti collocamenti tra i soci, affidati e/o depositanti, di strumenti di capitale e di debito (azioni e obbligazioni), sostenuti da prezzi artificiali del valore delle azioni e da operazioni ‘baciate’.
Infatti, mentre gli indici di borsa delle banche quotate sono in diminuzione già da alcuni anni, quello delle azioni delle due popolari, che non sono quotate, cresce fino al 2014, raddoppiando rispetto a pochi anni prima. Dal canto suo, il Banco Popolare, che dovrà alla fine aggregarsi alla Popolare di Milano, farà in questi anni diversi aumenti di capitale per alcuni miliardi, senza venire definitivamente a capo dei suoi squilibri.
E’ una rincorsa continua tra rischi creditizi e livelli patrimoniali, aggravata dalla sempre minore fiducia dei depositanti!
Ma quale era la governance delle nostre?
E’ difficile dare una rappresentazione precisa della pletorica e sempre più complicata governance delle banche di cui parliamo.
Dagli ultimi bilanci del Banco Popolare (2015) e delle due popolari fallite (2016) si ricava che il numero complessivo dei soci ha raggiunto l’iperbolica cifra di 600.000 unità: in media, una famiglia veneta su tre è socia di almeno una delle tre popolari.
Limitandoci ai consigli di amministrazione delle tre banche in veste di capogruppo (cioè tralasciando le decine di società e banche minori partecipate), il numero dei membri va dai 12 ciascuno per Popolare Vicentina e Veneto Banca ai 24 del Banco Popolare. Di essi oltre la metà sono espressione del mondo industriale (Veneto e nazionale) e nel contempo prenditori di credito dalle stesse banche amministrate.
La gestione da parte di maggioranze formate dai cosiddetti debitori di riferimento porta alla continua ricerca di equilibri collusivi, che, anche implicitamente, alimentano forme di condizionamento reciproco, con scambi di favori e modalità di compensazione dei vari interessi in gioco.
All’avvio nel 2014 dell’Unione bancaria europea, sono dunque tre le banche venete su un totale nazionale di 15, che vengono affidate alla vigilanza della BCE, in quanto sistemiche. E da quel momento comincia una diversa lettura delle politiche rischiose seguite fino ad allora e delle difficoltà dei mezzi patrimoniali di tenere il passo con il deterioramento degli attivi.
Il periodo 2015-17 è quello terminale, nel quale si elaborano affannosi tentativi, fino a dover prendere atto che per le nostre due non rimane che la liquidazione, con l’intervento del maggior gruppo bancario italiano, aiutato dallo Stato.
Non stupisce che dopo averle provate tutte, si arrivi a ribaltare sul contribuente l’onere della vicenda, attraverso l’accollo diretto e indiretto del portafoglio che l’acquirente non ritiene di proprio interesse. (continua…)